7 mag 2017
Ancora lontani dalla ‘pari dignità nella differenza’
Donne e uomini
M’avete detto che era un’immagine forte quella della settimana scorsa. E avete ragione. Mi ritrovo anch’io nell’idea che tutto quanto proviene dalla miseria dei lager andrebbe lasciato lì. Non esportato altrove. Anche se non dimenticato: mai dimenticato. «I personaggi di queste pagine – scrive Primo Levi – non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini dell’insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna».[1] Quali altre parole per descrivere l’umiliazione che l’umanità ha dato a se stessa? Ma ne siamo usciti. Malconci. Con costi tremendi. Milioni di esseri umani sacrificati a ideologie che niente avevano di umano. Le vittime dei lager. Le vittime di una guerra che ha coinvolto il mondo intero. Ma ne siamo usciti.
L’immagine forte che ho voluto usare, quella del kapò, vittima e carnefice nello stesso tempo, quindi doppiamente vittima, è per dire che non possiamo fermarci in un cammino che abbiamo ancora bisogno di riscoprire e portare avanti. In una ri-costruzione dei nostri rapporti. In una re-visione di come donne e uomini viviamo e alimentiamo le nostre relazioni. Il contatto con culture lontane dalla nostra dovrebbe diventare uno stimolo per guardare con occhio più attento la nostra casa.
Il fatto di vedere atteggiamenti e comportamenti che non ci appartengono più potrebbe farci cadere in una sorta di sonnolenza che c’impedisce di cogliere le tante contraddizioni che tuttora ci tengono ben lontani da quella pari dignità tra donne e uomini che, nei tanti discorsi che ci facciamo, continuiamo a proclamare. In famiglia. Nella società. Perfino nelle religioni. Divisione di compiti, parole, atteggiamenti, attribuzioni e assunzioni di responsabilità, se guardati con sufficiente coraggio, parlano ancora di stereotipi culturali nient’affatto superati. Meno che meno morti.
Qualche giorno fa partecipavo ad un incontro con un gruppo di famiglie. Giovani trentenni e giovani... ultrasessantenni – giovani perché la giovinezza, a mio parere, si misura sulla base dell’elasticità mentale più che sulla data di nascita. Tra le tante riflessioni e osservazioni che ci scambiavamo, una tornava con maggiore frequenza. Erano i più anziani a farla, pensando ai loro figli, oggi giovani genitori. I rapporti di coppia sono molto cambiati, dicevano. E a riprova veniva richiamata l’immagine dei tanti babbi che escono con il passeggino e che aiutano le mamme. Con i pannolini. Nel mettere a letto i bambini. Nel fare la lavatrice o stendere i panni... Osservazioni confermate dai trentenni presenti, naturalmente.
Ma gli stessi che facevano queste considerazioni non si rendevano conto del linguaggio che usavano. Non riuscivano a cogliere una parola. Una parola precisa. Un verbo: aiutare. I giovani babbi aiutano le mamme nella cura dei figli o nella cura della casa, dicevano.
Una domanda: quale giovane uomo, parlando tra amici direbbe che la moglie lo aiuta con i figli o nelle faccende di casa? Non direbbe piuttosto che lui aiuta la moglie? E lei? Lei, parlando con le amiche, è molto facile che dica – e si senta dire da loro – che è fortunata perché ha il marito che l’aiuta. Non è così?
Qui, allora, un’altra domanda: non sarà che sotto sotto pensiamo che nel patrimonio genetico (!) di una donna, se ci guardiamo bene, troviamo il gene della lavatrice, o quello dell’aspirapolvere o del ferro da stiro?
Un’altra osservazione. Questi giorni è arrivata un’immagine bellissima e davvero piena di speranza per l’umanità. Francesco, al Cairo, insieme con gli altri responsabili delle religioni. Cristiani e Musulmani. Immagine impensabile anche solo qualche anno fa. Ma qualcosa, secondo me, mancava: erano tutti e solo uomini (maschi). Tra loro neppure una donna.
Qualcuno mi dirà: non ti accontenti mai. No, non è che non mi accontento. È che mentre sono felice nel vedere quanta strada stiamo facendo perché le religioni diventino, finalmente, luogo d’incontro e di unione piuttosto che di conflitto o di divisione, cerco di tenere aperta la mia mente. Per andare avanti. Perché a me piace pensare che il buon Dio – con qualunque nome lo vogliamo chiamare – non ama le nostre discriminazioni. Che ancora facciamo tra donne e uomini. Le comprende. Non ci fa la guerra. Ma, secondo me, continua a stimolarci perché possiamo progredire. Anche su questo terreno. Donne e uomini, figli e figlie della stessa Vita. Nella differenza, con pari dignità.
[1] P. Levi, Se questo è un uomo.