15 gen 2017
In viaggio con l’inconscio
G..e..s..ù
Ho incontrato Adriana, una vecchia collega e amica. Psicoanalista romana, ottantenne. Più spirituale che religiosa. La vita le ha messo sulla strada anche la malattia. Il suo corpo è provato. La sua mente, come sempre, lucida e brillante. Ci siamo sentiti questi giorni di festa e ci siamo raccontati.
Il mese scorso va per una visita da un geriatra. È in sala d’attesa. Con il medico, dentro lo studio, c’è un’anziana donna. Adriana sente tutto perché lui non ha chiuso bene la porta. Il medico dice: signora mi scriva una frase, quella che le viene in mente. E insiste. Sembra che la signora non lo stia seguendo. Alzheimer? Demenza senile? Il medico cerca ancora: mi scriva una frase, anche breve... per esempio: ho visto il mare. Ma lei sembra proprio non seguirlo. E continuano, così, per altri lunghi minuti.
Uscita la signora, è il turno di Adriana. Lei e il medico si salutano. Ma lui ha dimenticato di togliere il foglio che aveva usato con la signora di prima. E subito lo sguardo di Adriana viene catturato da quel foglio. Con una scrittura incerta, la signora vi aveva segnato una sola parola: Gesù. E mentre mi racconta, Adriana si commuove ancora. Lei, abituata a viaggiare nelle regioni dell’inconscio con le tante persone che ha incontrato e incontra nel suo studio, si lascia sorprendere da quella piccola parola che la signora aveva scritto, tentando di seguire la richiesta del suo medico.
Cosa strana la vecchiaia. Ci mette sempre in difficoltà quando si presenta. Ne esorcizziamo perfino il nome. Vecchio suona male. Anziano è meglio. Il fatto è che essa abita le nostre case, nonostante tutti i tentativi che mettiamo in atto per espellerla. Entra in casa con i nonni quando, bambini, ne godiamo l’affetto e la cura. Ritorna poi con i genitori quando il tempo, veloce, ne tinge i capelli, e il corpo, stanco, non permette loro di rispondere a tutte le nostre richieste di giovani genitori in difficoltà con i figli piccoli. Lottiamo con essa, incapaci tante volte di comprendere con i nostri trenta quarant’anni che la mamma o il babbo, con i loro sessanta o settanta, non hanno quella forza che li aveva resi così potenti ai nostri occhi di bambini. Ritorna poi, e stavolta siamo noi che lei prende in braccio, quando, seguendo il ciclo della vita, diventa inseparabile compagna di cammino. E una volta che ci prende per mano, ci sarà fedele per tutti i giorni che verranno.
Non siamo saggi. La nostra civiltà non lo è. In altre culture il vecchio è guardato con stima e la vecchiaia è un’età da ambire. Un vecchio che muore è come una biblioteca che brucia, dice un proverbio africano. Ma la nostra cultura, ossessionata dal mito della produttività, la respinge. E il vecchio diventa peso. Economico e sociale. La pensione, l’assistenza, il tempo... tutto appare una perdita. La velocità, la corsa, il fiato sul collo delle mille incombenze cui ci votiamo, tutto ci allontana dall’accoglienza e dall’ascolto di un tempo che è parte integrante della vita.
Hillmann, uno psicologo americano morto cinque anni fa con i suoi 85 anni, ci ricorda che la vecchiaia è il tempo necessario perché il nostro carattere, la nostra energia, possa finalmente emergere e svelarsi. Perfino a noi stessi. Imprigionati come siamo, negli anni della giovinezza e dell’età adulta, nella macchina della produttività. La vecchiaia diventa il tempo del disvelamento di noi a noi stessi. Dell’incontro con il nostro io. Con la nostra anima. Liberi, finalmente, dalle corse affannose e dal tempo che, negli anni precedenti, ci ha rincorso.
E finalmente la dimensione vera dell’uomo, che ci differenzia da ogni altro essere vivente, può trovare il suo respiro. La dimensione dello spirito. Che non produce oggetti o denaro. Ma che è l’unica che continuerà a vivere con ciascuno di noi. Al termine di questa fase della vita, quando la vecchiaia ci presenterà la morte, che ne è compagna e sorella, sarà il nostro spirito che continuerà il viaggio della vita.
È qui che quella piccola parola che la signora aveva tracciato sul foglio rivela il suo senso. Gesù. Nient’altro. Al di là di ogni adesione o meno ad una religione, nella nostra cultura quel nome rappresenta l’Uomo dello Spirito. E quell’anziana donna, un po’ persa alla concretezza del quotidiano, nella sua parte più profonda riesce ad ascoltare la sua anima.
Due pensieri, ora, s’incontrano nella mia mente. Che peccato doverci accorgere soltanto negli ultimi anni della vita che la nostra parte spirituale ci chiede cura e attenzione. Poi, però, provo a dirmi che è un grande dono che la vita ci riservi il tempo della vecchiaia. Tempo di silenzio. D’ascolto. E di dialogo. Con noi stessi.
Buon anno!