1 ott 2017
Tra religione e fede: un dialogo a volte difficile
Il pane e il vino (2)
Non è facile – dicevamo la settimana scorsa – tenere un giusto equilibrio tra la dimensione-comunità e la dimensione-istituzione. Con il rischio che da una parte la chiesa-comunità, che giustamente prende il Vangelo come sua ‘legge’, sottovaluti o addirittura non intenda confrontarsi con l’aspetto istituzionale; dall’altra che la chiesa-istituzione prenda il Codice di Diritto Canonico con tutti i suoi derivati come sua ‘legge’ prevalente, facendo passare in secondo piano il Vangelo stesso. Se è chiaro infatti, sul piano teorico concettuale, che la chiesa-comunità e la chiesa-istituzione non sono che due aspetti della medesima e unica realtà (= la comunità dei credenti in Gesù, Dio-con-noi), questa chiarezza non è altrettanto evidente quando scendiamo sul piano pratico. Per cui ci ritroviamo molte volte che a prevalere è la dimensione istituzionale, dove leggi, regole e tradizioni finiscono per offuscare il messaggio di Libertà e di Verità che ci ha portato il Maestro.
È evidente, alla luce del Vangelo, che la chiesa-istituzione dev’essere al servizio della chiesa-comunità. E ad essa subalterna. È ormai chiaro a tutti che Gesù non avesse nessun progetto di fondare una nuova istituzione. Aveva faticato così tanto per riportare alle origini del progetto di Dio, Padre-e-Madre dell’umanità. Richiamando continuamente i suoi, ed evidenziando le contraddizioni e la confusione che le gerarchie del suo tempo (sacerdoti, teologi, farisei, sadducei) avevano messo in piedi.
Fatica ardua e nient’affatto gradita. Non è stato questo, infatti, che l’ha portato alla morte? Non certo le storielle del tempio da riscostruire in tre giorni o le tasse da pagare o non pagare ai romani, come volevano farci credere gli uomini di potere. Le autorità religiose, vedendo mettere in discussione tutta quella bella organizzazione che s’erano data e che garantiva loro potere, sicurezza e, non ultimo, ricchezza, hanno approfittato di un procuratore pavido per farlo fuori.[1] Troppo pericolo per le loro istituzioni. Altro che bestemmie perché si faceva figlio-di-Dio: sai cosa gliene importava a Pilato o a Tiberio? Ne avevano già tanti di dèi, uno più uno meno...
È che le gerarchie di allora avevano costruito una bella religione, mandando a farsi benedire la relazione di fede con il Dio creatore che essi per primi nominavano e predicavano. La religione, anziché via maestra per coltivare la spiritualità (= una relazione di fede/fiducia di figli con un Padre), era diventata una sorta di Codice, con tanto di obblighi e proibizioni: ben 613 mitzvot (precetti, in ebraico) avevano costruito e imposto al popolo, distinti in 248 obblighi e 365 proibizioni. Questo era diventata la religione.
E questo rischia di diventare una religione. Ogni religione. Quando perde la dimensione di comunità-di-figli-di-Dio e fa prevalere gli aspetti istituzionali. Organizzativi. Normativi. È un difficile equilibrio. Che per essere mantenuto ha bisogno che tutti, ripeto tutti, siamo costantemente vigili e con gli occhi aperti. Qual è il rischio? Che all’interno di una religione (= di una chiesa) si formino come due ‘classi’: il popolo e la gerarchia (dal greco ieròs, sacro e àrcho, comandare). Dove la gerarchia parla, decide, insegna, e i ‘semplici’ fedeli devono ascoltare e ubbidire.
E ora torniamo da dove siamo partiti: la prima comunione di Luca.
La ‘comunione’ nasce con Gesù che nel pane e nel vino ci dà se stesso come cibo-di-Vita.[2] Ai suoi tempi il pane era il pane. E basta. Unica differenza poteva essere quello lievitato o quello azzimo (senza lievito): la tradizione chiedeva che per la Pasqua il pane fosse azzimo in memoria dell’uscita dall’Egitto, quando, per la fretta, non si poteva aspettare che il pane lievitasse.[3] Oggi se andiamo in una panetteria, mille tipi di pane troviamo, fatto in mille maniere e con altrettanti ingredienti. Una parola di chiarimento sul pane da usare nella messa venga pure. Ma prendiamola per quello che è: un semplice chiarimento. Non possiamo certo pensare che il Buon Dio al momento della consacrazione, nella messa, ci chieda le analisi di laboratorio per decidere se trasformare quel pane nel suo Corpo oppure no! Ricordiamo sempre che «la lettera (= i codici, le regole) uccide, lo Spirito dà vita».[4] Salvata la possibilità per tutti di fare la comunione, non facciamoci catturare da codici o burocrazie.
Il problema primo non è tanto quale pane (di grano) o quale vino (d’uva). La domanda sulla quale noi cristiani abbiamo bisogno di riflettere è sul senso, sul significato che diamo alla comunione. In quante famiglie la prima comunione diventa prevalentemente, se non esclusivamente, l’occasione per regalare il cellulare o il tablet al bambino? Con buona pace di quanto il Vangelo ci dice sul bisogno che abbiamo del nutrimento spirituale che dà Vita!
Domandiamoci: quanti, tra gli invitati a quel giorno di festa, partecipano davvero alla festa, accompagnando il bambino facendo anch’essi, come lui, la comunione?
(2. fine)
[1] Cfr. Giovanni 19,12
[2] Cfr. Luca 22,19
[3] Esodo 12,8.39
[4] 2 Corinzi 3,6