30 apr 2017
Quando la donna è doppiamente vittima
Kapò
Drammatica questa parola. Drammatiche le immagini che evoca. In essa sono racchiusi la vittima e il carnefice: una vittima costretta ad essere carnefice, pur vivendo nella propria carne tutta la violenza e il sopruso del suo mondo.
Kapò – da kamerad (camerata) e polizei (polizia) – era il detenuto (uomo o donna), nei campi di concentramento nazisti, che aveva la responsabilità del suo gruppo. Odiato da tutti, incastrato in una sorta di sandwich tra le guardie, cui doveva rendere conto di qualunque cosa facesse un internato della sua baracca, e i suoi compagni di prigionia che vedevano in lui un traditore. Un venduto al nemico.
Questa terribile e drammatica immagine mi si è materializzata davanti agli occhi, come un fantasma spaventoso, di fronte ai recenti episodi di cronaca, qui in Italia, che hanno visto coinvolte delle ragazzine. Costrette dalle loro madri a stare dentro regole e tradizioni che ne soffocano ogni libertà.
A Bologna una quattordicenne d’origine bengalese si ritrova rasata dalla mamma perché non vuole mettere il velo. A Torino una quindicenne d’origine egiziana deve rivolgersi alla polizia perché la madre le aveva detto che non sarebbe più andata a scuola, dal momento che ad una moglie l’istruzione non serve perché è il marito che deve badare a lei; che quindi l’avrebbe mandata in Egitto dalla futura suocera così non avrebbe più potuto ribellarsi. Per poi sposare l’uomo cui era stata destinata, un venticinquenne a lei del tutto sconosciuto. Un’altra cosa: nel mondo si calcola che siano 200milioni le donne e le ragazze vittime di mutilazioni genitali (in Sierra Leone, secondo l’Unicef, sarebbe addirittura il 90% della popolazione femminile).
Ora, che la prepotenza maschile, appellandosi a qualunque tradizione, cerchi di conservare la supremazia e il potere sulle donne, non è una novità. Perfino tante religioni, guidate esclusivamente da uomini, si sono prestate e si prestano a sostegno di questa prassi. Ma che le donne siano esse, in prima persona, a sostenere e continuare certe tradizioni appare incomprensibile. Incomprensibile se non consideriamo che esse stesse solo le prime vittime dei condizionamenti culturali. Sono le donne che, costrette dai loro uomini e dalla loro cultura, si prendono la delega d’imporre alle figlie le regole di vita cui esse per prime si son dovute assoggettare. E quelle che, a contatto con il mondo occidentale, scoprono la loro dignità di esseri umani alla pari degli uomini, si ritrovano altre donne che, per prime, si oppongono a certe posizioni e le emarginano dal gruppo di appartenenza.
Gli uomini poi, chiusi nel loro pensiero, fanno del tutto per evitare che le ‘loro’ donne entrino perfino in contatto con altre che potrebbero ‘montar loro la testa’. Nel nostro piccolo mondo jesino e marchigiano ne ho fatto esperienza diretta. Nei miei anni di lavoro nel consultorio pubblico, più volte mi sono trovato a dover faticare non poco per riuscire a coinvolgere entrambi i genitori quando un bambino presentava un qualche problema. I padri detenevano il diritto alla parola. La donna doveva restare in casa. Molte volte non parlava neppure qualche briciolo, non dico d’italiano, ma di una delle lingue occidentali che permettesse di abbozzare un dialogo. Gli uomini pretendevano d’essere gli interlocutori unici, pur sapendo, e riconoscendo, che i figli erano delegati totalmente alla madre. In certi casi dovevamo ricorrere perfino all’autorità giudiziaria per superare certe omertà.
Sono le donne che in molti paesi, islamici e non, praticano alle loro ragazze quelle mutilazioni che esse, per prime, hanno dovuto subire. E pur avendone fatta esperienza diretta (del dolore, della sofferenza e delle complicanze che tali mutilazioni comportano, al momento dell’intervento e per il resto della loro vita), esse per prime continuano a sottoporre le loro bambine a tali pratiche. Non sono gli uomini che lo fanno: essi sono ‘puliti’. Innocenti. Loro non si sporcano le mani. Come non si sporcavano le mani gli aguzzini dei lager. I lavori più sporchi non li facevano i nazisti. Li facevano fare ai prigionieri, ai kapò.
La donna occidentale ne ha fatta molta di strada. Noi uomini un po’ meno, per la verità. Questi fatti di cronaca, molti dei quali neanche ci raggiungono perché rimangono chiusi in casa, dovrebbero spingerci a riflettere. E ad agire. Donne e uomini. Pur se fatichiamo non poco a costruire tra noi relazioni più giuste e più rispettose, credo che queste trasmigrazioni di genti e di culture ci mettano di fronte a un nuovo compito: aiutare chi è più indietro di noi... Le donne in prima linea.
E noi uomini occidentali (= evoluti!?) dove siamo?