23 lug 2017
Da gennaio ad oggi 38 donne uccise dai loro compagni
L’amore
«D’un tratto un pensiero mi fa sussultare: per la prima volta nella mia vita provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato. Sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto al quale l’essere umano possa innalzarsi. Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano e anche la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore!». Poche righe prima il pezzo 119104 scrive: «Avanziamo ora nell’oscurità, inciampando sulle grandi pietre, attraverso pozzanghere lunghe dei metri, che costellano la strada d’accesso. Le sentinelle non smettono di urlare e ci spingono avanti con il calcio dei fucili. Chi ha i piedi coperti da troppe ferite si appoggia al braccio del vicino i cui piedi sono meno dolenti. Non parliamo quasi, il gelido vento dell’alba lo sconsiglia...». È Viktor Frankl, il pezzo 119104 di Auschwitz, liberato nel 1945 dopo due anni e mezzo di prigionia.
Cosa lo porta a questa scoperta?
Ascoltiamo le sue parole. «La bocca nascosta dal bavero rialzato della giacca, il compagno che cammina accanto a me sussurra d’un tratto: “Tu, se le nostre mogli ci vedessero ora... Spero che nei loro lager stiano meglio di noi. Vorrei che non sospettassero neppure che cosa ci succede”. Improvvisamente ho davanti a me l’immagine di mia moglie. Mentre inciampiamo per chilometri, guardiamo la neve o scivoliamo su lastre ghiacciate, sempre sorreggendoci a vicenda, aiutandoci gli uni gli altri e trascinandoci avanti, nessuno parla più. Ma sappiamo bene che in questi momenti ciascuno pensa a sua moglie...».[1]
Oggi, 15 luglio 2017, mentre scrivo queste righe, i telegiornali continuano a dirci che nelle ultime 24 ore quattro donne sono state uccise dai loro compagni. Mariti o fidanzati. Le ultime, delle trentotto che da gennaio ad oggi hanno percorso questa strada.
Due giorni fa, ero in un bar, vedo sulla maglietta di un uomo una scritta, a grandi lettere: Jealousy can kill (la gelosia può uccidere). Era dietro, sulle spalle. Chi sa, ho pensato, se quando la indossa gli capita di leggerla.
Nel lager il pensiero della moglie dà a quegli uomini la forza di sopravvivere al freddo, alla fame, ai soprusi delle guardie e al non senso di una situazione assurda in cui uomini hanno posto altri uomini. Il pensiero della moglie porta questo residuo di uomo, che non è più neppure un nome, ma solo un numero tra milioni di altri numeri, a scoprire dentro di sé, per la prima volta, che l’amore è il punto finale, il più alto al quale l’essere umano possa innalzarsi. Prigioniero di uomini stracolmi solo di una presunta superiorità, che altro non è che miseria e povertà interiore, 119104 sa ascoltare la voce dello spirito. Che gli parla di amore. E gliene parla attraverso l’immagine della sua donna.
Ho scritto sua. Una parola tanto bella quanto pericolosa. Perché essa esprime condivisione, compagnia, vicinanza. Affetto. Amore. Ma anche possesso, proprietà. E a seconda della direzione che assume nel cuore di ciascuno, può portare al punto più alto al quale l’essere umano possa innalzarsi, o al più basso livello di pensiero. Alla povertà assoluta. A quella presunta superiorità non dissimile da quella che solo ottant’anni fa teneva il mondo diviso tra chi aveva diritto di vivere e chi, invece, essere inferiore, doveva morire.
Non è questo, in fondo, che succede nella mente di un uomo che si ritiene in diritto di uccidere la sua donna? La vita di lei a lei non appartiene. Lui ne è proprietario. E come tale può disporne come vuole.
E lei dov’è?
Guardate un momento la foto. È il collo di una ragazza segnato dalle mani di lui. Lei è innamorata. Lo rincorre ovunque. Lo ama, dice. Lui le fa continue crisi di gelosia. La controlla perfino sul posto di lavoro. La segue. La ama. E lei lo ama. Ma che significa amare per questi due giovani? È questo il culmine della saggezza che 119104 scopre in un lager? È questo l’amore che coltivano, come ragione di vita, quei numeri-senza-nome al solo pensiero delle mogli di cui non sanno né dove sono né se un giorno potranno rincontrare?
Un femminicidio non nasce all’improvviso. Uomini e donne teniamo gli occhi aperti! Ai primi segni di violenza chiediamo aiuto. Lo schiavo e il padrone. Entrambi ne hanno bisogno.
[1] V. E. Frankl, Uno psicologo nei lager, 1946