19 mar 2017
È di tutti il diritto/dovere di riflettere sul tema del fine-vita
Vivere, morire...
La morte non è una malattia rara. Anzi, non è neppure una malattia. È la normale e sana conclusione di questo ciclo di vita. Una conclusione verso la quale tutti siamo incamminati. Qualcuno arriverà prima, altri dopo. Ma tutti arriveremo. Lei non ci dimenticherà.
È questa la ragione che mi fa dire quanto sia importante che tutti partecipiamo alla riflessione sul tema del fine-vita. Che ci confrontiamo tra noi. Ascoltandoci. Reciprocamente. Consapevoli che ciascuno può dare il suo contributo, senza il timore di venir classificato o etichettato: cattolico, laico, credente, ateo, di destra o di sinistra. Dentro le righe o fuori. Le etichette, lo sappiamo bene, servono solo a dividere. E a chiudere dialogo e confronto.
E proprio perché tutti siamo incamminati verso questa meta comune, tutti siamo non solo autorizzati, ma direi richiesti di portare il nostro contributo. Perché in tutti è presente lo Spirito della Vita – che i cristiani chiamano Spirito Santo – e ciascuno ne è una manifestazione particolare, unica. Per se stesso. Ma anche per il bene di tutti.[1] Il tirarmi indietro o il non sentirmi autorizzato a pensare con la mia mente è come vivere la vita a rimorchio. Degli uni o degli altri. Oltre che privare i miei compagni di viaggio del mio contributo alla comprensione e all’assunzione di responsabilità rispetto a decisioni da prendere. Sul piano personale e sul piano politico.
Per questo m’intristisce sentir parlare di ordini di scuderia o di lobby di fronte a una tematica così grande. E così universale. Non mi piace, perché mi propone un pensiero rigido. Immobile. Intoccabile. E mi dispiace ritrovarlo anche in persone o ambienti che dicono di condividere una visione cristiana della vita. Il Maestro di Nazareth non perdeva occasione per ricordare che prima di ogni legge, di ogni regola e di ogni dottrina viene la persona. Perché è nella persona che il Padre-e-Madre di tutti ritrova se stesso – proprio come ogni uomo o donna di questo mondo si ritrova nel proprio figlio – e non nelle regole o nelle leggi, per quanto perfette queste possano essere, e da qualunque autorità esse vengano.
Proviamo allora ad aprirci al dialogo. Tra noi e con gli altri. Consapevoli che nessuno di noi possiede la verità. O, meglio, che ciascuno di noi può coglierne un aspetto. Così come ciascuno di noi può cogliere un raggio della luce e del calore che il sole invia sul nostro pianeta.
Se abbiamo un pensiero forte, solido, costruito attraverso la riflessione e il confronto. Attraverso la preghiera – per chi può usare questa parola. Con lo studio e la ricerca. Con la capacità di coltivare le domande che nascono nell’intimo dell’anima. Se il nostro pensiero è forte, allora non avremo paura d’incontrare un pensiero diverso dal nostro. Allora non cadremo nella trappola di voler imporre la nostra verità come se questa fosse l’unica e in grado di cogliere ogni aspetto della realtà. È solo un pensiero rigido che ha paura del confronto. Perché sa bene che nel confronto con l’altro si frantumerebbe. Come un arto irrigidito: se urta un ostacolo rischia di rompersi. Solo un arto forte, robusto, sano sa assorbire un urto senza rompersi.
Mi piacerebbe lasciarci oggi con qualche domanda.
Fabiano, Eluana, Piergiorgio, Pietro, la nostra Daniela, e i tanti rimasti anonimi, hanno scelto di lasciarsi morire o di andare essi per primi incontro alla morte dal momento che questa, dal loro punto di vista, tardava ad incontrarli.[2]
Ciascuno di noi ha il suo pensiero. Ascoltiamolo. E cerchiamo di ascoltare le ragioni che lo sottendono. Poi proviamo anche a farci una domanda: se fossi io steso su un letto, immobile, incapace di fare qualunque cosa, incapace perfino di mangiare o di respirare senza l’intervento di una macchina, cosa sceglierei? Sì, oggi mi dico che continuerei a vivere, che accetterei quella condizione. Ma oggi io sto bene. Posso camminare. Alzarmi al mattino e vestirmi. Da solo. Posso andare al bagno e mangiare. Prendere la macchina o la bicicletta. Incontrare una persona amica o concedermi spazi di silenzio e di solitudine. Posso riflettere, parlare, leggere, scrivere. Svolgere il mio lavoro e concedermi tempi di riposo. Ma se fossi lì? Incapace perfino di muovere un dito? In tutto dipendente da chi mi sta vicino? Magari anche con il pensiero che sono di peso a tutti? E se fosse il dolore l’unico compagno, inseparabile, delle mie giornate e delle mie lunghe notti?
Voi, con onestà, sapreste rispondere a queste domande? Io sento che in me esse rimangono aperte...
(1. continua)
[1] Cfr. 1 Corinzi 12,7