25 feb 2018
Di fronte all’invasione di smartphone e social
Astinenza e digiuno
"FaceBook, con due miliardi d’iscritti che la frequentano anche oltre cento volte al giorno, ha più seguaci del cristianesimo ed è grande una volta e mezzo l’islam. È, insomma, più influente di qualsiasi religione". Così un ex dirigente della Silicon Valley in una conferenza presso la sede di Common Sense, una ong americana che si preoccupa della crescita dei bambini in un ambiente sano rispetto all’inquinamento tecnologico. Uno studio recente sostiene che considerando ogni carattere digitato un tocco, arriviamo a toccare il telefonino 2.617 volte in un giorno!
Sono soltanto dei dati. Magari anche non proprio scientificamente validati. Ma non credo che ci possiamo permettere di gettarli nel cestino. Senza farci un po’ di conti.
Giulia, liceale quindicenne, "sta tutto il pomeriggio e la sera con lo smartphone in mano: come una protesi" dice suo padre. "E chi glielo può togliere? Provaci, sentirai gli urli. È capace di sfasciarti tutto" racconta la mamma di Daniela, terza media. E a scuola? Beh, non parliamo della scuola: l’idea geniale della ministra è di far usare lo smartphone anche lì. Per i nostri ragazzi, neppure le cinque ore della scuola, liberi da questa protesi...
Hikikomori li chiamano in Giappone. Sono giovani che vivono reclusi in casa, isolati dal mondo reale, connessi soltanto con un mondo virtuale. Ma non è solo un problema giapponese, dove tra scarsa presenza paterna e iperprotettività materna, unite alla grande pressione sociale verso una competitività estrema, il ritiro diventa un efficace meccanismo di difesa. Né vogliamo qui entrare dentro gli aspetti patologici, psico-patologici, che questa sindrome evidenzia. Ho ricordato questa parola solo come campanello d’allarme. Come un possibile modello comportamentale che rischiamo d’importare anche a casa nostra.
Ma ritorniamo alla nostra normalità del quotidiano. A quel senso di smarrimento e di disorientamento che c’invade quando non abbiamo il telefonino a portata di mano. A quel sentirci persi. Disconnessi dal mondo.
Ma... disconnessi dal mondo, o da noi stessi?
Perché questo, credo, è il nocciolo del problema. Iperconnessi con il mondo ma disconnessi da noi stessi. Dai nostri pensieri. Dalle nostre emozioni. Da quegl’interrogativi che per la nostra anima sono ossigeno e alimento. E insieme fonte di ansia certe volte, altre perfino di angoscia. Uno scienziato, un filosofo sanno che le domande sono il carburante che spinge avanti la ricerca e conduce a nuove scoperte. Senza le domande, senza il desiderio di andare oltre il conosciuto, non ci sarebbero né la ricerca né, tantomeno, la scoperta del nuovo.
Il rischio più grande che oggi un ragazzo o un giovane adulto corrono è quello di voler fuggire da quell’insoddisfazione che ti spinge a cercare oltre. Nei rapporti. In famiglia. Nel mondo esterno, ma reale, con amici e colleghi. Nel rapporto con te stesso. Concedendoti momenti di pausa e di riflessione. Con un libro in mano, o in un incontro, aperto e reale, potendoci guardare negli occhi con i nostri interlocutori. Toccandoci con una mano, o con un abbraccio per salutarci.
Rischiamo una domanda: l’angoscia da assenza da telefonino è altrettanto forte dell’angoscia da disconnessione dalla nostra mente? Un giorno di disattenzione, di distacco dai nostri pensieri, crea lo stesso disagio che creerebbe un giorno senza telefonino? Il mio timore è che per molti di noi lo stesso porsi questa domanda appare incomprensibile. O addirittura insulso. Privo di qualsiasi valore.
Tutte le religioni e le culture hanno tempi particolari. Tempi forti rispetto al resto dell’anno. Il ramadan dell’islam, la quaresima dei cristiani, lo yom kippur degli ebrei, e altro ancora. E a questi tempi si associano parole antiche: astinenza e digiuno. Parole che perfino tanti movimenti salutisti hanno fatto proprie. Astinenza e digiuno parlano di presa di distanza da qualcosa che è esterno a noi, addirittura da qualcosa che ci è necessario per vivere, come il cibo o le bevande. Parole che sono un invito a disintossicarci da una possibile dipendenza. Non tanto fisica. Quanto mentale.
Come cristiani o musulmani o ebrei o appartenenti a qualunque religione o semplicemente appartenenti alla specie-uomo, non sarebbe salutare regalarci ogni giorno qualche ora di astinenza e di digiuno da cellulare e da internet? Ne guadagnerebbe la nostra salute. Ne guadagnerebbe la nostra umanità, la nostra appartenenza a un mondo reale, fatto di persone. In carne ed ossa. Con cui parlare, litigare, scontrarci e incontrarci. Con cui ridere o anche piangere, quando ne sentiamo il bisogno.
Noi reali siamo. Non virtuali.