VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

29 lug 2018

27 luglio 2008: nasce questo nostro dialogo settimanale

Dieci anni

Grazie!

Mi è difficile dire un’altra parola che possa significare ciò che sento. Non avrei mai pensato, dieci anni fa, di prendermi un compito così impegnativo. Se m’avessero detto che avrei dovuto sottoscrivere un contratto del genere, ne sarei scappato, accampando mille scuse: il lavoro, gli impegni, l’inesperienza. L’impossibilità anche solo a immaginare di poter scrivere ogni settimana su un argomento che non fosse banale o ripetitivo o insignificante o, peggio ancora, inutile. Dannoso? No, questo non lo pensavo: ho sempre cercato di tener fermo il pensiero di non recare danno a chi, di volta in volta, poteva incontrarmi. Primum non nocere (per prima cosa, non recare danno) è il primo insegnamento che viene dato a chi si appresta a svolgere una professione di cura.

È vero che certe volte, in tempi in cui la tecnologia rischia d’impadronirsi delle nostre facoltà con il suo potere seduttivo, soprattutto in campo sanitario, dimentichiamo che un paziente prima di essere tale è una persona. E la vita che ha è l’unica di cui può disporre. Non è così raro, purtroppo, il caso in cui i protocolli – quelli che, tra l’altro, ci proteggono anche da possibili azioni giudiziarie – rischiano di prevalere sull’attenzione a quel paziente. A quella persona.

E qui siamo sul piano della vita biologica.

 

C’è un’altra dimensione - di cui parlammo proprio nel nostro primo incontro, il 27 luglio di dieci anni fa - che appartiene all’essere umano.[1] È la dimensione spirituale. Quella che troppo spesso, impropriamente, diventa terreno di competenza esclusiva di una religione. Anche qui il primum non nocere dovrebbe essere la regola per chi ha un compito di guida... spirituale.

Se l’operatore sanitario, medico o psicologo, rischia di ripararsi dietro i protocolli operativi che oggi sono validi e domani saranno ampiamente superati, simile rischio può correre anche l’uomo di religione, il sacerdote, la guida spirituale. Che non ha protocolli validati da ricerche scientifiche, ma una valigia strapiena di certezze e dottrine. Che altrettanto facilmente possono diventare scudi protettivi di fronte al nuovo che la vita, in evoluzione continua, ci mette davanti.

E il rischio dell’irrigidimento, del si è sempre fatto così, o dell’ipse dixit (l’ha detto lui) – che di volta in volta è l’autorità di turno, il prete o il vescovo o quel tale documento – è sempre in agguato. E la dottrina, le regole codificate dall’istituzione prendono il sopravvento e diventano lo scudo dietro il quale ripararsi. Così l’uomo, con le domande che la vita gli pone, rimane in secondo piano: prima la dottrina, poi la persona. E se dovesse evidenziarsi un conflitto, ripararsi dietro l’istituzione diventa facile via di fuga. Uscita di sicurezza.

 

Se il medico o lo psicologo, professionisti della cura, quando si riparano dietro i protocolli o le scuole di pensiero dimenticano l’insegnamento di Ippocrate – è il malato che va curato, non la malattia, insegnava già duemila400 anni fa –, pari pericolo può correre l’uomo di religione. Solo che stavolta non è l’insegnamento di un maestro qualsiasi, sia pure grande e autorevole, ma l’insegnamento del Maestro. Quello con la M maiuscola. Gesù di Nazareth.

Quel suo “il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato” è ancora duro da digerire. Lo era per i suoi contemporanei: Marco, il primo ad averci lasciato un testo del Vangelo, c’informa che dopo aver sentito queste parole, e averlo visto agire di conseguenza, «i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire». Indigeribile perfino per i suoi: sua madre e i suoi fratelli, che cercano di andare a prenderlo, preoccupati che sia «fuori di sé».[2]

Il punto è che quest’insegnamento è duro da digerire, cioè da fare proprio, anche per noi. Nonostante i duemila anni di cristianesimo.

Perché duro? Perché mettere l’uomo, la persona prima delle regole significa avere la forza di ascoltare e di accogliere chi hai davanti. Una regola, una dottrina sono fisse, sicure, chiare. Immutabili. La persona è in movimento. In evoluzione. Le regole e le dottrine vivono di certezze. Statiche e invalicabili. La persona vive di domande. Di dubbi. Ha bisogno di ascoltare le domande che nascono nel suo cuore. Di cercare risposte. E di farle diventare nuove domande. L’uomo è in cammino. La dottrina è ferma.

 

Cos’altro posso dire? Che la Vita, in continuo movimento, mi ha spinto fuori dall’immutabile e dal sicuro di una dottrina. Sia essa frutto di una delle tante scuole di pensiero in campo scientifico, o fondata sulle regole di una religione. È questo, credo, che in questi dieci anni mi ha portato a condividere con voi più domande che risposte. Fino ad invitarvi, spesso, a fare insieme qualche passo oltre il recinto delle sicurezze acquisite.

Il sabato (le regole, le norme, le tradizioni, le dottrine, i protocolli...) è vivo quando è a servizio dell’uomo. È lettera morta quando pretende che l’uomo sia sacrificato alla sua rigidità.

 

Ancora grazie! Andiamo avanti.

 

[1] La mente e l'anima, Vol. 1, pag. 28

[2] Marco 2,27; 3,6.21