6 mag 2018
Di fronte alla vita e alla morte
Due bambini. Un abisso...
Uno stesso giorno, 23 aprile. Due bambini. Alfie, condannato a morire. Louis Arthur Charles, il cosiddetto royal baby, nato e festeggiato per vivere. Due donne, due mamme, Kate e Kate. Le coincidenze hanno sempre colpito la nostra fantasia. E tutti, persone d’ogni genere, studiosi, artisti, poeti e gente comune, di fronte a queste ci fermiamo. E ci domandiamo. Avranno un senso particolare? Lo psicologo Jung parlava di sincronicità, evidenziando che non dev’essere un caso se due fenomeni si presentano così uniti. Uniti nel tempo (syn, insieme e chrònos, tempo). E, nella situazione che guardiamo oggi, anche nello spazio: nella stessa nazione.
Tre pensieri sono nati nella mia mente. Apparentemente disconnessi. Ma non così tanto, poi.
Parto dal più facile. Il cosiddetto royal baby, il bambino regale. Scriveva Gibran «Io non detesto i re: che governino pure gli uomini, ma a patto che siano più saggi degli uomini».[1] Ho sempre avuto ammirazione per questo poeta. Saggezza e spiritualità guidano il suo pensiero. Non è così facile trovare uomini che sappiamo coniugare insieme queste due dimensioni. Sì, mi sta bene che chi governa debba essere più saggio degli uomini comuni. Credo sia il minimo che possiamo chiedere a chi si assume un tale compito. Noi ne sappiamo qualcosa. Questi giorni, poi...
Però mi chiedo cosa ci stiano a fare i re. Sì, i re. Quelli che per diritto di nascita si ritengono superiori agli altri. Loro sono i re, gli altri i sudditi. Mi sembra un pensiero tanto... piccolo. Meschino quasi. Non vi nascondo infatti che una sorta di commiserazione sento, sia nei confronti di un re, o una regina, sia nei confronti di chi se ne sente suddito. Un incastro di bisogni? Una sorta di reciproca attribuzione di ruoli e d’identità? Come se non potessimo incontrarci tra esseri umani e riconoscere che apparteniamo alla stessa specie. Che partecipiamo della medesima Vita. Con pari dignità. Nell’originalità e unicità di ciascuno.
Il mio timore è che finché avremo bisogno di re o di regine, di principi o di principesse, restiamo lontani dal poterci guardare negli occhi e dal saperci riconoscere fratelli. Figli della stessa Vita.
Sai, Gibran, neanch’io detesto i re. Però non posso fare a meno di commiserare sia le loro maestà sia chi ha ancora bisogno di essere un suddito. E mi auguro che, come siamo riusciti a liberarci da imperatori figli degli dèi, da Augusto fino ai tempi nostri, così, fra poco, riusciremo a fare a meno anche di re e di regine. E avremo soltanto governanti, eletti dal popolo. Sempre comunque, come dici tu, più saggi degli uomini che essi governano.
Gli altri due pensieri son più difficili da digerire. Perché essi nascono ascoltando l’altro bambino. Alfie. Una grave patologia gl’impediva di condurre una vita autonoma e di fronte a lui, oggi, la medicina sa solo riconoscere la propria impotenza.
Il primo pensiero nasce guardando i giudici. «... Giudice finalmente! Arbitro in terra del bene e del male» cantava Fabrizio De Andrè. Era la storia di un piccolo uomo che aveva deciso così di superare il suo «metro e mezzo di statura».[2] Arbitro in terra del bene e del male. Queste parole mi risuonano di fronte alle decisioni dei magistrati dell’Alta Corte. Incapaci di ascoltare affetti e sentimenti, in grado solo di sentenziare «dalla cattedra d’un tribunale». Incapaci di mettere la persona, le persone, prima delle leggi. Incapaci di leggere al di là dei loro codici. Aridi e inanimati. Magistrati onnipotenti. Piccoli uomini, presunti onniscienti.
L’ultimo pensiero è per i genitori di Alfie. Per un abbraccio di solidarietà. Di vicinanza. Un dubbio mi viene, osservando le reazioni della stampa e di tante organizzazioni. Se invece che lottare per chiedere la prosecuzione dei trattamenti sanitari, avessero lottato per far staccare il respiratore e sospendere alimentazione e idratazione artificiali al loro bambino, non sarà che avrebbero incontrato maggiore solidarietà? Nel loro paese e nel nostro? Riflettiamo bene. Io credo che se davvero vogliamo riconoscere a ciascuno il diritto di disporre in autonomia dei trattamenti sanitari ai quali essere sottoposto in situazione di fine vita, pari attenzione dovremmo garantire sia a chi non intende avvalersi di certi trattamenti, sia a chi invece li desidera e li richiede. Per sé e per le persone di cui ha la responsabilità.
Siamo partiti, oggi, da Due bambini. Un abisso... Mi piacerebbe salutarci con Due bambini. Due fratelli. Non più nobili o plebei, re o sudditi, prìncipi o gente comune. Solo fratelli. Perché appartenenti alla stessa umanità e figli della medesima Vita.
[1] K. Gibran, Gesù figlio dell’uomo, 1928
[2] F. De Andrè, Non al denaro, non all’amore né al cielo, 1971