18 mar 2018
La paura del diverso. Disabile, nomade, immigrato...
Ha la sindrome di Down!
«Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente»; «Pochi sono i casi di studenti provenienti da famiglie svantaggiate, disabili o non italiani». Vi chiederete dove sono scritte queste parole e perché, immagino. Ecco: sono – meglio, erano, perché finalmente sono state tolte – nel sito del Ministero dell’Istruzione. Chi ce l’ha messe? Alcuni dirigenti scolastici per propagandare la loro scuola, invitando così le famiglie-bene a iscrivervi i figli, rassicurandole sulla... qualità del loro prodotto. Perché una scuola che funziona è una scuola di classe (= classista). Disabili, svantaggiati, immigrati abbassano il livello, la qualità. No? A proposito, avete notato la delicatezza (!) della prima scritta? Quel dirigente non ha scritto disabile, ma diversamente abile. Un dirigente scolastico. Cioè un educatore. Forma ineccepibile. Ma... che miseria!
Quarantatré anni fa, era il 1975, a Jesi, con un’Amministrazione comunale illuminata, chiudemmo la scuola speciale – ricettacolo e rifugio di tutti gli alunni da scartare (handicappati si diceva allora) – e inserimmo tutti i bambini nella scuola di tutti. Iniziai quell’anno e in quell’occasione la mia attività di psicologo. Avremmo aspettato ancora due anni per avere una legge che abolisse le classi differenziali in tutta Italia (L. 517/1977).
Ciononostante proprio questi giorni sentivo due genitori che avevano deciso di non iscrivere la loro bambina nella scuola del quartiere dove abitano, perché in quella scuola “ci sono anche sei sette immigrati in ogni classe”. Convinti così di fare il bene della figlia. Italiana, bianca, e di buona famiglia! Gettarli dal quinto piano non sarebbe stato un pensiero di non-violenza, ma devo confessarvi che un senso di vergogna e di rabbia ho sentito nascermi dentro.
Sorpresa. In mezzo a tutto questo mondo ben-pensante arriva una scheggia impazzita. Dall’America. Da quell’America che pensa di risolvere il problema delle sparatorie nelle scuole, non certo rivedendo la facilità con cui chiunque può acquistare un’arma, ma aumentandone il numero. Genialità delle genialità: armiamo i professori!
Ebbene, proprio da quest’America arriva un colpo basso. Un pugno allo stomaco. Il colosso degli omogeneizzati per bambini, la Gerber, ha messo come bimbo-Gerber 2018 un bambino down. Un bambino con un cromosoma in più. Un bambino che appartiene a quella categoria di bimbi che al proprio interno conta un numero enorme aborti. Nella società guidata dalla cultura dello scarto, una fabbrica di alimenti per bambini sceglie come bambino-immagine un disabile. Erano 140mila le foto arrivate per questa specie di concorso per la scelta di un viso di bambino da mettere su tutte le confezioni, per le pubblicità e le varie campagne. Il volto dell’azienda per quest’anno è il volto di un bambino disabile.
Qualcuno potrà anche pensare che è tutta una questione d’interessi. Pur di vendere, sfruttano anche la disabilità. Io non credo che sia questo il punto. Non lasciamoci ingannare: l’immagine pubblicitaria di un’azienda diventa la sua immagine. Avete visto mai una fabbrica di cosmetici che mette una modella con le rughe o piena di smagliature? Una palestra che si presenta con un uomo dai muscoli flaccidi o con dieci chili in più sulla pancia?
Pensate che una fabbrica di omogeneizzati per bambini si fa una buona pubblicità con l’immagine di un bambino disabile? Di un bambino che nessuno vorrebbe avere tra i suoi figli? No. Non credo proprio. Stavolta mi piace pensare che è stato un atto di coraggio. Eroismo? No, non esageriamo. Un atto di civiltà sì, però. Di civiltà.
Diceva Francesco, cinque anni fa: “Questa cultura dello scarto tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora, come il nascituro, o non serve più, come l’anziano”.[1] Lucas – questo è il nome del bambino-Gerber 2018 – non lo sa. Ma con il suo sorriso aperto e felice, ci ricorda che il valore di una persona non si misura dall’efficienza. Né da quanto sa produrre per una società del consumo. Il valore di una persona è nel suo essere persona. Unica e irripetibile. Immagine e creatura in cui il Creatore stesso si riflette e in cui si compiace.
[1] Francesco, 5 giugno 2013