4 mar 2018
Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT). Un dialogo aperto
L’arte di vivere (2)
È con piacere che ricevo l’intervento della Sig.ra Magdalena. Che penso di poter leggere alla luce delle parole del colibrì, con cui lei conclude: “Vado a fare la mia parte”. Ed è con questo spirito che provo a rispondere. Data, però, la vastità e la pluralità delle sue considerazioni, limito la mia risposta solo ad alcuni punti. Lasciando magari ad altre occasioni la possibilità di riprendere altri pensieri.
«Siamo sulle colonne del settimanale diocesano» così inizia. Spero di non fraintendere il suo pensiero. Ma non vorrei che il suo fosse un richiamo, come se all’interno della chiesa (= comunità dei credenti) ci debba essere un pensiero unico su temi così vasti e così grandi come il vivere e il morire. Né mi auguro lei voglia affermare che un settimanale diocesano non possa essere luogo d’incontro di pensieri e punti di vista che possono anche differenziarsi, addirittura divergere, in certi aspetti. Se appartenere alla comunità dei credenti (= chiesa) dovesse significare ritrovarsi in un pensiero unico, uniforme e indifferenziato, mi chiedo perché tanto spreco d’Energia da parte del Buon Dio, dal momento che «a ciascuno [di noi] è data una manifestazione particolare dello Spirito, per l'utilità comune», come ci ricorda la Scrittura.[1] Basterebbe che uno soltanto sappia pensare e parlare. Uno per tutti. E tutti, passivamente, seguono!
Per quanto mi riguarda, non sono, certo, la voce della chiesa. Ma una voce nella chiesa, questo sì. Come, del resto, credo sia ogni collaboratore del nostro come di ogni altro settimanale diocesano. Che non è il catechismo, meno ancora il Vangelo. Ma, più modestamente, luogo d’incontro, di confronto, di ascolto reciproco e rispettoso tra pensieri, riflessioni, domande, risposte che ciascuno di noi, come «manifestazione particolare dello Spirito», nella ricerca continua della Verità, sa offrire a se stesso e agli altri, «per l’utilità comune».
Ritornando alle DAT, ho evidenziato come sia la legge a definire trattamenti sanitari la nutrizione e l’idratazione artificiali, in quanto la loro somministrazione può avvenire solo su prescrizione medica e mediante dispositivi medici (Art. 1 c. 5). Possiamo divergere da questa definizione, come mi pare dica Magdalena. Posizione legittima la sua perché espressione della libertà di pensiero. Ma non possiamo imporre il nostro punto di vista a chi coltiva pensieri e valori diversi dai nostri. Oltretutto credo sia altrettanto legittimo anche provare a riflettere sulla differenza tra l’uso di questi trattamenti per un tempo definito, nella prospettiva di un’uscita dallo stato d’emergenza, e l’uso che in altre situazioni dev’essere a vita, magari anche in uno stato di assenza di coscienza – per quanto la scienza medica oggi sa dirci. Facciamo attenzione a un rischio, sempre in agguato nelle religioni: dimenticare che uno stato laico deve fare leggi per tutti. Non vorrei che entrassimo, noi, in un pensiero che ci porterebbe verso una sorta di sharìa... cattolica.
Circa la misteriosità della nostra mente e il rispetto che le dobbiamo, poterlo cogliere lo ritengo un dovere nei confronti di noi stessi. E nei confronti degli altri. Di chiunque altro. Fino a spingermi ad accettare che la mia valutazione di oggi rispetto al mio fine-vita potrebbe anche divergere da quella che avrò nel momento in cui mi troverò di fronte all’imminenza dell’incontro con la morte. Ma credo sia legittimo e doveroso oggi farmi una domanda, e provare anche a darmi una risposta, su come vorrò essere trattato in un momento così grande, importante e pieno di mistero.
Se il Buon Dio la mia vita l’ha messa nelle mie mani, mi piace pensare che s’aspetti che io me ne assuma tutta la responsabilità. E per tutto il tempo che mi è dato. Non mi piace pensare di lasciarla esclusivamente nelle mani di altri, siano pure medici. Il medico conosce bene il mio corpo – nei limiti delle conoscenze della medicina – ma non può conoscere la mia anima. I suoi pensieri e i suoi desideri, la sua fatica e il suo progetto, soprattutto in quel momento, per il medico sono inconoscibili. Sconosciuti. In nome di quale principio deve lui decidere per me? Posso certamente accettarlo se ritengo che sia giusto così. Ma perché non posso riconoscere a me, intestatario e custode della mia vita, il diritto e dovere di disporne secondo i miei valori? Non è questo, del resto, che sono chiamato a fare, in un dialogo costante con la Vita, anche per il tempo presente?
A conclusione. Chi a questa legge non sente di aderire ha tutta la libertà di farlo. Se io desidero che tutte le terapie, comprese idratazione e nutrizione artificiali, mi vengano somministrate in ogni momento e in ogni condizione (accettabile sul piano clinico), nessuno può rifiutarmele. Perché, però, dovrei impedire a chi fa riferimento a princìpi e valori diversi dai miei, di poter scegliere diversamente da me? Non è questa, in fondo, una regola fondamentale di ogni vivere democratico?
Questo, sia chiaro, non certo perché io ritengo che la maggioranza abbia «il diritto di decretare la verità», come scrive Magdalena. Ma perché in una democrazia è la maggioranza, in un dialogo aperto e rispettoso con tutti, che ha il diritto e il dovere di scrivere una legge. E se questa mi riconosce la libertà di scegliere, perché la medesima libertà io non devo riconoscerla anche agli altri?
Nel ringraziare Magdalena per il suo intervento, usciamo dalle DAT. Con un pensiero. Facciamo attenzione a non cadere in una visione tanto negativa dell’uomo, suffragata perfino da parole della bibbia, estrapolate e isolate dal contesto storico culturale in cui sono nate. Se riapriamo il mito delle origini, vi troviamo il Creatore che si compiace della sua opera nel guardare l’essere umano. Perché in lui ritrova se stesso, la sua immagine.[2]
[1] 1 Corinti 12,7
[2] Genesi 1,26-31
(Questa pagina è scritta in risposta all'intervento di Magdalena Lutka intorno all'articolo del 4 febbraio sulle DAT, L'arte di vivere)