VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

14 ott 2018

Coltivare il dialogo. Un’arte molto difficile, ma necessaria

Le ragioni dell’altro

Non sono tempi facili quelli che stiamo vivendo. Sembra che la ragione e la capacità di riflettere debbano cedere il passo all’arroganza. Suffragata dal consenso. Principale, se non unico criterio di validità per un’idea. Per un progetto. E il dialogo? Sempre più in ombra, si rivela una delle strade più difficili da percorrere. Ma se vogliamo costruire una società civile e adulta, non possiamo dimenticare che è una delle arti più necessarie. Coltivare il dialogo, che fatica.

Anche a me piace di più seguire i miei pensieri e le mie convinzioni piuttosto che quelli di un altro: tanto più se l’altro la vede proprio diversamente da me. E su questo so che ci ritroviamo un po’ tutti. Patologia? Presunzione? No, semplicemente umanità. I nostri pensieri sono il risultato delle nostre storie, riflessioni, ricerche, studi, letture, incontri. Si fondano sui nostri valori. Sulla nostra esperienza di vita.

Nulla di male fin qui. Il problema nasce quando i nostri punti di vista pretendiamo di farli diventare la verità. Arrogandoci così il diritto-dovere di portare gli altri a pensarla come noi. E chi non ci segue è un ignorante, un prevenuto. È altrove. Non è dei nostri. È un fuori-strada.

Ascoltare il pensiero dell’altro, le ragioni dell’altro, richiede grande forza: quella di far tacere un momento la nostra voce e fare un po’ di spazio nella mente per accogliere quanto l’altro ha da proporci. È una strada in salita. Ma se vogliamo costruire, possiamo solo provare a fare insieme almeno qualche passo.

Il problema è che di trappole lungo la strada ce ne sono davvero tante. Ne guardiamo qualcuna.

 

Una delle più rapide e delle più facili da imboccare, tanto più se i temi che stiamo guardando sono significativi per entrambi, piuttosto che confrontarci sui pensieri, è di muoverci all’attacco della persona. Attacchiamo chi la pensa diversamente da noi sul piano personale. Tu che sei... o tu che fai così e così, come ti permetti di dire o di fare certe cose? Tu che sai sì e no leggere e scrivere, vuoi insegnare a me che ho due lauree? Ecc. E tanto di peggio. Il mondo della politica e, purtroppo, di questi tempi anche della religione – il nostro caro Francesco ne sa qualcosa! – è prodigo di esempi.

Si va, cioè, sul piano personale più che sugli argomenti di cui stiamo parlando. Per cui il confronto scivola facilmente verso lo scontro. Se tu mi offendi, è molto facile che anch’io inizi ad offenderti. Senza accorgerci, né tu né io, che a un certo punto rimane solo di lanciare il guanto e incontrarci... all’alba dietro l’orto delle carmelitane! E ciò di cui stavamo parlando? Mah, chi lo sa dov’è andato a finire. Disperso, tra le nebbie delle offese.

 

Altre volte, perché il nostro pensiero sia forte e conquisti maggior consenso, lo diciamo alzando i toni. Parole grosse. Perfino volgari. Come se la forza di un’idea fosse nel tono con cui la esprimiamo. A che serve essere aggressivi nei toni o nelle parole? La forza, o la debolezza, è nell’idea stessa che intendiamo proporre. Non è certo il volume della voce, né la durezza delle parole, che rendono un pensiero più valido di un altro. Anzi, alzare la voce è una tattica piuttosto efficace per non ascoltare ciò che l’altro ha da dirci.

Ma il problema è che fare la voce grossa sembra portare consenso. Senza accorgerci che così tutti, gli uni e gli altri, diventiamo sempre più... sordi.

E man mano ci irrigidiamo in un una posizione, non ce ne muoviamo più. Fino a restarne prigionieri noi stessi. Dimenticando perfino che il punto in cui siamo oggi è il risultato di un’evoluzione che il nostro pensiero ha percorso nel tempo. E il punto di oggi se apriamo al dialogo, fra un mese, fra un anno, dopo il nostro incontro, di fronte ad altri pensieri e proposte che l’altro ci porta, potrebbe benissimo muoversi. Evolvere. E la nostra posizione di partenza arricchirsi. Perfino cambiare.

 

Un’ultima trappola – ultima, per oggi – riguarda l’area del confronto. Spesso lo facciamo solo sulle posizioni cui siamo giunti. Le mie e quelle dell’altro. Un vero confronto può nascere soltanto sulle motivazioni che sottostanno alle nostre prese di posizione. Le motivazioni, in un discorso, sono come le fondamenta di una casa: la sua solidità dipende da queste, non certo dalla bellezza degli infissi o dal colore della facciata. Per questo, ogni volta che affrontiamo un argomento, dovremmo avere la forza di confrontarci sulle ragioni che ci portano a questa o quella posizione. Che, ripeto, non può essere la verità. Ma semplicemente la mia verità. Quella di adesso.

E un tono pacato, senza urlare, aiuterà l’altro ad ascoltare le nostre ragioni. E noi quelle dell’altro. Non c’è un’altra strada, io non so intravvederla, se vogliamo davvero vivere in una società civile. E adulta.