29 apr 2018
Provando ad entrare nel mondo di tanti nostri ragazzi
Orfani di... genitori viventi
Questi giorni siamo stati bombardati dalle immagini di quei ragazzi che in un istituto di Lucca hanno aggredito il professore, filmando il tutto e mettendolo in rete. Novelli eroi, vendicatori illustri di torti e ingiustizie subiti da parte della... classe al potere. Poveri studenti, oppressi e sfruttati da insegnanti che spadroneggiano su di loro con la minaccia di un’insufficienza sul compito d’italiano o sull’esercizio di matematica. Con l’elmo in testa, pronto a conquistarsi il suo 6, non pago di tanta ingegnosa trovata, riusciva perfino a urlare al professore-padrone d’inginocchiarsi di fronte a lui.
Guardando questi ragazzi non mi viene da dire dove andremo a finire. È un’altra la domanda che mi faccio: dove sono i genitori.
Perché a quindici anni o giù di lì posso comprendere che non è facile aver raggiunto quella maturità, sia pure adolescenziale, che ti fa cogliere certe giuste misure. Così a sedici o diciassette. O anche quando raggiungi la fantasmatica maggiore età. Letta più sulla data di nascita che osservando il comportamento e la capacità di riflessione.
Mi chiedo dove sono i genitori. Primo perché non vorrei che fossero tra quelli che, pur avendo ormai superato i quaranta, si mostrano pronti a marciare, lancia in resta, per colpire il malcapitato insegnante che si è permesso di richiamare il ragazzo per certi suoi comportamenti, o si ritrova impossibilitato, pur avendocela messa tutta, a fargli raggiungere uno striminzito 6 da scrivere sul registro. Padri che aggrediscono gli insegnanti sembrano battersela, a livello di statistica, con i figli adolescenti.
E se poi non sono fra quelli pronti a difendere i figli da un insegnante che cerca di fare il proprio lavoro, sono fra quelli che scompaiono dalla vista. Latitanti illustri. Impotenti dichiarati: combattici tu con un figlio sedicenne, dicono.
È vero. Impresa enorme ritrovare un figlio che per 16 anni non ti ha visto. Altrettanto titanico farsi ritrovare da lui, se negli anni ti sei lasciato catturare dal solo pensiero di portare a casa lo stipendio a fine mese. Padri assenti e madri impossibilitate a garantire, nello stesso tempo, affetto e disciplina.
Un ragazzo, o una ragazza, che per trovare se stesso ha bisogno di fare il bullo, con i compagni o con gli insegnanti, è una persona cresciuta nel vuoto. Nell’assenza di adulti capaci di contenerlo. In grado di assumersi la responsabilità di fornirgli quella sana disciplina che ti fa fare le ossa. Che ti permette di affrontare le fatiche della vita e di non soccombere alla prima contrarietà.
Immagino, mi sembra già di sentire, certe reazioni, di repulsione istintiva, di fronte a questa terribile, angosciante, vetusta e antiquata parola: disciplina. Roba d’altri secoli. Odore di medioevo. Eppure... eppure basterebbe guardare le nostre palestre piene di adulti, giovani e meno giovani, sudati e affannati, per togliere quei chili di troppo e per ridare un po’ di tono a muscoli inflacciditi dalla stasi invernale. Come si fa ad andare in spiaggia, ora che arriva il bel tempo, così ridotti? Questa fatica che c’imponiamo non è... disciplina?
Disciplina indica apprendimento. Lavoro. Disciplina, discepolo hanno la medesima radice: il latino discerĕ che significa imparare, apprendere. È il corrispettivo di docēre, insegnare. Nella scuola è chiaro, il docente è l’insegnante, perché lui conosce quanto deve trasmettere e insegnare, e chi va per apprendere è il bambino, il ragazzo.
E in famiglia? Non è all’adulto, al genitore, che spetta il compito d’insegnare ai figli l’arte del vivere? Di trasmettere i primi rudimenti, fornire le basi, le fondamenta sulle quali poi, crescendo, ciascuno costruirà la propria Vita? Un genitore che scappa da questo compito fa crescere un figlio disabile. Dis-abile, cioè non-abile: non capace di portare avanti la costruzione di se stesso.
Oggi tanto facilmente ci lasciamo prendere, di fronte ai figli, dal desiderio di fornire loro qualunque cosa essi chiedano. Ma questa qualunque cosa troppo spesso è fatta solo di oggetti. Di cose, appunto. Dai vestiti firmati – cominciamo dagli zainetti per la scuola dell’infanzia! – ai telefonini, al bancomat. Li facciamo crescere, si dice, nella bambagia. Liberandoli, difendendoli da ogni pur minima fatica. Difficoltà.
Avevo scritto, oggi, un altro titolo a questi pensieri: Dal ben-essere il mal-essere. Evidenziando proprio il fatto che il ben-essere, inteso nel senso di avere a disposizione tutto quanto si desidera senza dover affrontare la fatica di conquistarselo, diventa la radice del mal-essere. Del vuoto che tanti nostri ragazzi esprimono anche con questi gesti da bulletti infantili, dai quali oggi siamo partiti.
Proviamo a restituire ai figli il diritto ad avere dei genitori. Veri insegnanti di vita. Che possono anche sbagliare. Ma mai scappare...