VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

15 lug 2018

Una pausa per respirare: un biglietto nell’era del digitale

Quando l’amore...

Volevo dirti che ti amo
in quattordici lingue straniere.
Ma soprattutto,
difficile più di tutto,
in italiano.

Viene quest’uomo e mi porta, commosso, un foglietto. Gliel’ha dato lei. È scritto a mano, su un uno di quei biglietti che usiamo per ricordarci cosa comprare al mercato o cosa fare di lì a poco. Mentre me lo legge i suoi occhi diventano lucidi. Non vuol piangere, soprattutto non vuol farsi vedere: un uomo che piange, sia pure per la gioia che inonda il cuore, che uomo è? Così ci hanno insegnato, crescendoci, i nostri genitori. Non fare la donnicciola! Ci ripetevano ad ogni occasione.

Ma lui si commuove e dice: l’ha scritto a mano, non è un sms. Lui per il quale smartphone e computer non hanno segreti, tanto è l’uso che ne fa nel suo lavoro, è ancora più colpito da un foglietto scritto a mano. Non sono parole al vento, come quei messaggini virtuali che basta un click per farli sparire. No. Sono parole che hanno preso vita con il movimento di una mano, guidata dal cuore, e dalla testa.

In quel foglietto ci sono le sue impronte. Come sigilli. Sacri. Perché sigilli umani. Non segni virtuali. Tutti uguali, chiunque li scriva. Un dito su un tasto, poi un altro tasto, poi un altro ancora... ed esce una parola. Ma lì chi scrive non c’è. Può esserci il dito di chiunque. E la parola che ne esce è sempre la stessa.

In quel volevo dirti che ti amo c’è lei. La sua mano, il suo volto, la sua persona. Nessun altro lo scriverebbe come lei. Chiunque altro ci metterebbe la propria impronta. Qui c’è lei. Lei soltanto.

 

Nell’era del digitale sono pezzi rari questi. È come un abito cucito a mano. O il pane fatto in casa. Le macchine sono più perfette: tutti i pantaloni sono uguali. La forma del pane è più regolare quando esce dalla macchina. Ma non c’è vita in quell’abito e non c’è l’impronta della mano in quel pane.

 

L’amore è la forza che alimenta il mondo. La mancanza d’amore è il baratro che fa precipitare una vita.

 

Quando l’umanità ha cercato parole per descrivere Dio, non ha saputo trovare altro che questa: Dio è AMORE. Anche altri aggettivi, altri nomi sono entrati nel linguaggio religioso. Dio grande e misericordioso ripete continuamente il Corano. Dio è misericordia (rachamìm, il plurale della parola rechèm, che significa utero) ripete la Bibbia per rappresentare la maternità di Dio. Dio è il respiro (ruàh) dell’universo. In Dio è la sapienza (sophìa). Ma è il Dio-Amore il perno su cui si muove tutto l’insegnamento di Gesù. Così sconvolgente che non solo i suoi contemporanei ne rimasero scandalizzati al punto da farlo condannare a morte, tanto questo pensiero metteva in pericolo tutta la religione che essi avevano messo in piedi. Ma così sconvolgente che pian piano anche i suoi discepoli, nel corso dei secoli, l’hanno messo da parte. E si son dati da fare per recuperare l’immagine del Dio-giudice. Anche del Dio-padre, sì, ma padre-padrone. Un Dio da temere e da tenere a dovuta rispettosa distanza. Lui, che era diventato uno di noi, viene rimesso da noi al suo posto: nell’alto dei cieli. Così, sufficientemente lontano, rompe di meno, e noi, forti delle nostre istituzioni, ce ne possiamo difendere meglio.

 

Nel mito greco sull’origine della donna e dell’uomo si racconta che i due nascono da un intervento di Zeus, il padre degli dèi. Prima gli esseri umani erano maschio-e-femmina uniti. Ma stavano diventando troppo forti, arroganti, agli occhi dei signori dell’Olimpo. Così, dopo aver tenuto consiglio, Zeus sentenzia: «“Li taglierò, ciascuno, in due, così diventeranno più deboli e, dato che aumenteranno di numero, potranno esserci anche più utili” [...]. Ogni metà, però, desiderava fortemente ricongiungersi all’altra. Lo struggimento per quella perduta unità – scrive Platone – il desiderio di riottenerla, si chiama AMORE».[1]

Lo shemà, la preghiera che il pio ebreo recita ogni giorno, ricorda che il suo rapporto con Dio è una relazione d’amore.

 

Ha ragione Marino a commuoversi per le parole della sua compagna. Scritte di suo pugno. Come scritte di suo pugno erano le Dieci Parole che il Dio del Sinai aveva consegnato a Mosè per il suo popolo.[2]

Marino e la sua donna non sono più ragazzini, e sanno bene – la vita l’ha insegnato – che non c’è parola più grande o più forte o più potente di questa.

Amore e ’l cor gentil sono una cosa, scrive Dante. E alla fine del suo straordinario viaggio non gli rimane che concluderlo nella pienezza dell’incontro con l’Amor che move il sole e l’altre stelle.[3]

 

Grazie, Marino. E grazie alla tua coraggiosa compagna.

 

[1] Platone, Simposio

[2] Cfr. Esodo 31,18; 32,16

[3] Dante, Via Nuova; Paradiso