VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

24 giu 2018

Dove stanno i figli quando i genitori si separano?

Trasloco. No, trasbordo!

Come va con questi traslochi? Chiedo a Lucio, 17 anni. Non traslochi, trasbordi! Gli chiedo cosa voglia dire. Mi guarda, meravigliato che io non sappia la differenza. Se fai un trasloco, mi dice, una volta fatto, sei a casa. Noi siamo in trasbordo. Guardo Anna, 14 anni, che annuisce. E aggiunge: trasbordo perenne. Anche Betta, 8 anni, conferma. I genitori, separati da tre anni, hanno concordato che questi figli stanno tre giorni con il padre e quattro con la madre. La settimana successiva, poi, tre giorni dalla mamma e quattro dal babbo.

Lo sguardo di Lucio continua a esprimere meraviglia: come faccio a non sapere la differenza tra trasloco e trasbordo. A fine seduta comprenderà che la differenza scritta sul vocabolario è molto chiara. Anche per i genitori. Ma ora è necessario che questi imparino a leggere la differenza che è scritta nel cuore dei loro figli. In trasbordo perenne. Da tre anni ormai. E, in prospettiva, per il tempo che hanno davanti fin quando non saranno autonomi.

 

Sta diventando una prassi. I figli sono collocati pari tempo presso entrambi i genitori. Tre giorni più quattro e quattro più tre. Una settimana e una settimana. L’importante è che il tempo sia lo stesso.

Cosa c’è di meglio? Direte. La domanda giusta sarebbe un’altra: cosa c’è di peggio! Sì, perché questi figli non sono visti. Il loro disagio, nel trasbordo continuo, li rende instabili. Piccioni viaggiatori. Senza una casa. La loro casa. Se vogliamo comprendere non ci rimane che provare, noi adulti, a vivere una settimana in una casa e l’altra in un’altra. Pari tempo. Per mesi. Per anni.

Qualche giudice, coraggioso, di fronte a due genitori che si ostinavano a mettere i figli in perenne trasbordo, aveva deciso che questi sarebbero rimasti nella casa familiare, e ad alternarsi sarebbero stati i genitori: una settimana abitava lì il babbo, l’altra la mamma. Non hanno retto a lungo: hanno capito, sulla loro pelle, il disagio di non avere una casa.

 

Vi siete mai chiesti cos’è che porta due genitori che si separano a prendere decisioni simili? Non è così difficile da intuire. Loro vi diranno che lo fanno perché vogliono stare con i figli, che non ci possono pensare a non vederli, che non è giusto che uno di loro ci passi più tempo dell’altro. Amore per i figli? Non proprio. Dietro queste parole di solito ci sono due ragioni. L’immaturità di due adulti che hanno paura a vivere la solitudine della separazione. E chiedono ai figli di colmare quel vuoto che adesso sarebbe pesante, intollerabile. Poi, però, più terra terra, ce n’è un’altra. Anche più vera. Debitamente istruiti dai rispettivi avvocati, stando i bambini pari tempo con l’uno e con l’altro, nessuno dei due dovrà versare all’ex l’assegno di mantenimento per i figli. Ridotti, così, a ostaggio.

 

Chi ascolta il disagio di questi ragazzi, di questi bambini, e la loro sofferenza?

Nella separazione sia lui sia lei hanno il proprio avvocato. Che ne tutela i diritti – anche quelli che non ci sono, certe volte! – ma che, soprattutto, parte lancia in resta per spuntarla nei confronti della contro-parte (= il collega prima di tutti, poi l’altro genitore). Spuntarla. Ad ogni costo.

E i figli? I figli non hanno un avvocato. Chi ne tutela i diritti, soprattutto quando i genitori sono così imprigionati nella conflittualità da non tenere più, nel loro campo visivo, i figli stessi? Quando poi su questa, che è fuoco acceso, gli stessi legali si mettono a gettare benzina...

Tutti gli animali hanno bisogno di una tana. Di un nido. Dà loro sicurezza, protezione. Senso di stabilità. E noi non siamo così diversi. Apparteniamo alla stessa natura. Perché dobbiamo mettere i bambini, i ragazzi in una situazione così innaturale? Solo per le nostre fragilità e per i nostri interessi?

 

Qualche giorno fa parlavo con un padre che, volendo avere con sé la bambina di 9 anni a settimane alterne, aveva deciso di mettere un altro avvocato – di quelli cattivi, mi dice – perché la moglie pretendeva che Sofia fosse collocata presso di lei. Con un tempo congruo da passare poi con il padre. Gli propongo d’immaginarsi lui che tutte le domeniche si deve caricare le sue cose e stabilirsi, per una settimana, nella casa coniugale, la settimana dopo nell’altra. Per mesi. Per anni. Ci pensa un po’. Lì per lì ci rimane male. Poi, però, riconosce che per Sofia sarebbe davvero pesante doversi sottoporre a un trasbordo perenne. Non so dove arriveremo. Questi due genitori hanno avuto la forza di chiedere aiuto.

Poco non è. Chiedere aiuto è segno di coraggio. È segno che, se pure come coniugi non riescono più a superare le loro conflittualità, sanno non dimenticare che sono e rimangono genitori. Per sempre.