17 mar 2019
Lasciamoli sbagliare per imparare Fabio Giri
Cara professoressa,
mentre le scrivo mi tornano alla mente tutte le professoresse incontrate nella mia carriera di studente, che dura ancora oggi. Si dice che gli esami non finiscono mai e in effetti la nostra vita è scandita da tappe e passaggi che in qualche modo dobbiamo superare. Ho passato, come molti, buona parte della mia vita ad essere anche studente, con maestri e professori che accompagnavano il mio percorso di crescita. A fianco della famiglia e dei pari, quello dei professori è un sistema che svolge un compito fondamentale nello sviluppo individuale. Fossi in lei sentirei una grossa responsabilità. È vero che la maggior parte dei suoi allievi li vede per pochi mesi, ma non dovrebbe sottovalutare l’importanza di questo tempo. Lei è una persona con le sue peculiarità – e ci saranno studenti che queste peculiarità le ricorderanno per sempre - ma è anche parte di un insieme, quello degli insegnanti, che va al di là del singolo e si intreccia a tutto il corpo docenti e al ricordo dei professori passati. Quando lei entra in contatto con uno studente, gli lascia sempre qualcosa, che si spera sia positivo.
Non è un bel periodo per lei: per decenni ha goduto di rispetto incondizionato, connaturato al ruolo, mai posto in discussione da persone che si ritenevano troppo inferiori a lei per pensare di contraddirla. Ancora la mia generazione la considerava con deferenza. Oggi i suoi richiami, le sue correzioni sono lette come attacchi e capita di vedere genitori che difendono con determinazione, a volte violenta, i propri figli da quelli che vengono considerati accanimenti. Parte di responsabilità ce l’abbiamo anche noi psicologi. Nell’intento di stimolare atteggiamenti accoglienti e di rinforzo verso i figli, forse non si sono scelte le parole giuste e il messaggio arrivato è stato di non far sperimentare la rabbia, la frustrazione e il fallimento ai figli, a qualunque costo, col risultato che molti giovani diventano adulti con un ritardo emotivo allarmante.
Mi ricordo sprazzi dei miei anni alle medie e al liceo. Penso di essere stato fortunato. Non ricordo discriminazioni o ragazzi lasciati indietro perché non in grado di stare al passo con gli altri. Oggi nella scuola sono presenti molte attività parallele alla didattica, c’è attenzione al problema della dispersione scolastica, vengono condivisi gli obiettivi e la via per raggiungerli. Eppure i bimbi meno portati, con genitori impegnati o poco scolarizzati, faticano a recuperare terreno e molti sono costretti a passare ore al doposcuola. Viene chiesto di correggere i compiti, per aiutare gli insegnanti, ma così i nostri figli non possono provare cosa vuol dire poter sbagliare per imparare. E questo mi porta a considerare un altro aspetto, di cui lei non ha colpa: la competitività. La logica di mercato ha trasformato le scuole in aziende, con la necessità di vendere il proprio prodotto. Che non è portare gli studenti a pensare con le proprie teste, ciascuno secondo le proprie possibilità e inclinazioni. La realtà è che la scuola si vende se produce eccellenze, per cui si sviluppano le potenzialità di chi è già avvantaggiato, a discapito di chi avrebbe bisogno di maggiore aiuto. Ma così la scuola diventa “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”, un’istituzione che amplifica le differenze, invece di ridurle.
Nel congedarmi da lei voglio ribadire che non le sto chiedendo di sostituirsi ai genitori: svolgete compiti molto diversi, ma nel suo compito di insegnante è compreso quello di educare, educare persino a non essere d’accordo e aiutare soprattutto chi fatica di più. Anche per gli studenti a Barbiana la scuola era dura, ma “chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito”. Per amare la scuola, la scuola deve amare i suoi studenti, anche – e soprattutto – quelli che si trovano in difficoltà. Solo così la scuola può realmente diventare strumento di uguaglianza, di vera uguaglianza e non di omologazione.
Che ne pensa? Insieme a un grazie per il suo lavoro, un saluto affettuoso.