23 giu 2019
Tra slogan, promesse e parole inflazionate. Liberare la speranza
Cambiamento
Quante volte ci saremo sentiti tirata addosso la parola cambiamento da un anno a questa parte? Impossibile calcolarle, credo. Nemmeno Google riuscirebbe a farlo. Neanche Summit, il computer più veloce al mondo. Tanto è inflazionata e svenduta ad ogni angolo, di dibattito o di chiacchiera, politica o mediatica. Ma in un vuoto di umanità, ogni parola è buona se porta consenso. Divenuto unico criterio di giudizio.
Nello stesso tempo poi questi giorni, richiamati da vicende che dovrebbero almeno far rinascere un minimo di vergogna per quanto veniamo a conoscere di intrighi tra politici e magistrati, ci sentiamo risucchiati dall’ormai classico, e assolutorio, così fan tutti.
Ed eccoci di nuovo precipitati nella non-speranza. Come se in un rapporto di reciproca e inversa proporzionalità, dovessimo guardare l’evoluzione tecnologica e scientifica che ci rende orgogliosi di noi stessi, e un’altrettanta involuzione in fatto di dignità umana e di valori civili.
Spinto, però, da un’istintiva repulsione di fronte alla proposta di rassegnazione che sento fare perfino da amici e colleghi, voglio continuare a respirare. E per riuscirci faccio qualche passo indietro come se dovessi ripartire su una salita troppo ripida. Così con un po’ di rincorsa posso continuare la strada che ho davanti. Questa rincorsa, oggi, vorrei condividere con voi. Con l’obiettivo di non darla vinta a chi vuol venderci rassegnazione o sbandierare fasulle proposte di cambiamento.
Così incontro Pandora, un primo punto fermo. La sua storia si perde nel tempo, come per tutti i miti cui l’umanità ha dato vita. Nel suo vaso, tra i tanti mali che gli dèi gelosi vi hanno deposto a danno degli umani, è nascosta la speranza. Rimasta, però, chiusa nel fondo. Questo vaso, credo, abbiamo bisogno di riaprire, perché anch’essa possa diffondersi. Fonte d’energia buona in mezzo al vuoto e alla corruzione che ci stanno invadendo.
Poi entro nella storia. «Se vuoi cambiare il tuo paese, devi prima cambiare la tua provincia; se vuoi cambiare la tua provincia, devi prima cambiare la tua città; se vuoi cambiare la tua città, devi prima cambiare la tua tribù; per cambiare la tua tribù, devi prima cambiare la tua famiglia. Se vuoi cambiare la tua famiglia, devi prima cambiare te stesso». Così Confucio, un maestro che la stessa Cina, che 2500 anni fa l’ha visto nascere, oggi ha (quasi) totalmente dimenticato.
Se vuoi cambiare il tuo paese, devi prima cambiare te stesso.
IX secolo d.C., siamo in Persia. Bayazid Bistami, un musulmano della corrente mistica dei Sufi, così scrive: «Quand’ero giovane ero un rivoluzionario e pregavo Dio così: “O Dio, dammi la forza di cambiare il mondo”; quando raggiunsi la mezza età e vidi che non ero riuscito a cambiare una sola persona, pregavo così: “Signore, dammi la grazia di cambiare almeno la mia famiglia e i miei amici”; ora che sono vecchio, prego Dio solo così: “Signore, fammi la grazia di cambiare me stesso”. Oh se avessi pregato così fin dall’inizio!». Cambiare me stesso.
Chi non ha mai detto, almeno una volta, qui bisogna cambiare? Nella politica, nella scuola, nel sindacato, nella chiesa. Perfino in famiglia. Ma chi di noi è riuscito a dire, almeno una volta, prima di voler cambiare gli altri devo cambiare me stesso? Il mio timore è che se alla prima domanda tutti alzeremo la mano, alla seconda o facciamo finta di non averla sentita o, in un moto d’onestà e di verità, abbassiamo la testa. E magari, se riusciamo ad andare avanti, iniziamo a chiederci: dove comincio?
Duemila anni fa, nella Palestina orgogliosa della sua superiorità rispetto agli altri popoli, ma ora conquistata dai romani, un maestro insegnava: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».[1]
Troppo forte questo maestro: non è un caso che le autorità di allora l’hanno fatto fuori appena hanno potuto. Anch’essi erano quelli del... cambiamento. Ma del cambiamento degli altri.
Solo quando lavoro per cambiare me stesso, cambio davvero il mondo. Quella parte di mondo che io sono e che vive in me. Quando esco dal mio egoismo, dallo sguardo incollato al mio ombelico, e mi accorgo degli altri, è una parte di mondo che cambia. E una forza di trasfigurazione s’irradia dall’uno all’altro.
Sogno? Utopia? Non credo. Con troppi venditori o predicatori o... governi del cambiamento dovremo continuare a trastullarci, se ciascuno di noi non si muove per cambiare se stesso!
[1] Luca 6, 41-42