16 giu 2019
In Olanda a 17 anni una ragazzina si toglie la vita. Riflessioni. Domande
Noa. Abbiamo perso
Sì, abbiamo perso. Abbiamo perso la partita con la vita. Sempre quando una persona decide di togliersela. Ancor più quando chi prende questa decisione ha solo 17 anni. E se fosse possibile, in un dramma di questo genere, aggiungere peso a peso, sul piatto della gravità dovremmo mettere quello infinito di un’ulteriore violenza. Da mettere sul conto di noi uomini, adulti e maschi, capaci di ridurre a oggetto di consumo una bambina. Che, oltre alle molestie subite nell’infanzia, ha dovuto accollarsi perfino il peso di uno stupro da parte di due uomini che tre anni fa l’hanno aggredita e violentata.
In tanti siamo rimasti sconvolti di fronte al dramma di questa ragazzina e della sua famiglia. La stampa ci ha sommersi di informazioni e disinformazioni, riflessioni e domande. Abbiamo sentito di eutanasia e di suicidio assistito. Tanta confusione ci è arrivata addosso. Comprensibile, di fronte alla morte che prevale sulla vita. Tanto più se questa arriva in tempi che non le spettano: a 17 anni non si deve morire.
Non entriamo oggi sul tema del fine-vita. Né parliamo di eutanasia o di suicidio assistito. Ci torneremo. Non affrontiamo neppure il tema della pedofilia o della violenza di genere. Tanti sono, come vedete, gli aspetti che la storia di Noa ci mette davanti. È piuttosto su come ci poniamo di fronte al dolore dell’anima e su quali strumenti mettiamo in atto, o non mettiamo in atto, per cercare una risposta che permetta d’incontrarlo, di ascoltarlo, e di prendercene cura. Perché le ferite dell’anima sono spesso più dolorose e più profonde di quelle del corpo.
Oggi di fronte a tante malattie del corpo la medicina si ritrova ancora impotente. Incapace di intraprendere la via della guarigione, sta imparando tuttavia che la via della cura è sempre percorribile. Trovare rimedi che attenuino il dolore, che lo controllino, soprattutto quando questo ha esaurito la sua funzione di sentinella, è un compito importante che la medicina è chiamata a svolgere. Accanto ovviamente alla ricerca, continua, perché le tante malattie oggi solo curabili possano diventare anche guaribili.
Di fronte alle malattie dell’anima molte sono le risorse di cui oggi disponiamo. Risorse che abbracciano aree molto vaste e, a volte, apparentemente lontane. Medicina e psicologia, scienze sorelle, hanno tuttavia bisogno di ampliare il loro dialogo. Troppe volte ancora litigano nella presunzione, l’una e l’altra, di avere la soluzione al problema e di esserne depositarie esclusive.
Il medico, di medicina generale o psichiatra, tanto facilmente sente il richiamo del farmaco e altrettanto facilmente vi si rifugia, quasi che il dolore dell’anima possa ridursi ad una semplice alterazione biochimica del cervello. E immaginando una sorta d’intervento magico, apre l’armadietto dei farmaci combinando cocktail cui delegare il compito di guarire il cervello impazzito. Provate voi a sentire quanti medici hanno la consapevolezza che tanta sofferenza interiore non chiede farmaci, ma molto più profondamente, perché molto profondo è il luogo in cui essa risiede, chiede di essere vista e ascoltata.
Lo psicologo, da parte sua, attento osservatore dell’anima – o, almeno, tale dovrebbe essere –, corre due rischi di fondo. Da una parte accampa la pretesa di una sorta di monopolio per la sua scienza, dimenticando che se pure il dolore dell’anima non è riducibile ad un’alterazione biochimica, esso tuttavia si attiva in un corpo, in un cervello. Che non sono qualcosa di totalmente altro. E dall’altra, per restare oggi al dolore di una 17enne come Noa, perde di vista, cioè non tiene in considerazione, che soprattutto quando questo dolore profondo è un bambino a portarcelo, o un adolescente, questi non possono essere isolati dal contesto familiare. Per un bambino, per un adolescente la famiglia è il luogo primo dove cercare ascolto e accoglienza. Il bisogno di appartenere è fondamentale per una buona salute mentale. E il primo luogo di appartenenza è la famiglia.
La psiche si può curare, abbiamo detto. Le malattie dell’anima – come quella che ha portato la nostra Noa a lasciarsi morire e la sua famiglia a non trovare la forza e i mezzi per lottare per la vita piuttosto che per la morte – possono guarire. Un bambino, un adolescente, insieme con la sua famiglia, può trovare la cura, la terapia di cui ha bisogno. Per vivere e non per morire. Ma... Ma solo se ha i soldi per pagarsela.
Sono brutte queste parole? Sì, terribili. Ma è la realtà: il Servizio Sanitario Nazionale non offre nessuna terapia-per-l’anima (psico-terapia). Ti dà il ricovero in ospedale se l’anoressia ti ha ridotto a pelle-e-ossa o se la depressione ti ha portato ad avvicinarti al suicidio. Poi? Poi niente. Poi devi rivolgerti al professionista privato. Cui puoi accedere... solo se hai i soldi.