13 ott 2019
Per accompagnare il Parlamento a legiferare sul fine-vita
Tra vivere e morire (3)
Il confine tra la vita e la morte è il momento più intimo e personale. Per ognuno di noi. Momento unico e irripetibile. Passaggio misterioso, incomprensibile alla nostra mente. Strada che nessuno ci ha insegnato. E quando saremo chiamati a percorrerla saremo senza indicazioni, senza mappe. Saremo lì, soli con noi stessi. Spaventati? Fiduciosi? Stanchi? Nessuno sa dirci. Perché nessuno, di quelli che siamo qui a parlarci, l’ha ancora attraversato. E nessuno, che l’abbia attraversato, è qui con noi a indicarci il percorso.
È qui, credo, la ragione vera che rende così difficile racchiudere in articoli di legge un momento tanto intimo e personale, e altrettanto significativo. Definire quando e come sia lecito decidere di lasciare la vita e affidarci alle braccia della morte. Quanto e come io possa decidere di me stesso e quanto questa decisione debba essere rispettata da chi ha il compito di aiutarmi a metterla in atto. Perfino quando non la condivide.
Il Parlamento ora è chiamato a legiferare in merito alla morte provocata. Sia essa con il suicidio assistito, o addirittura con l’eutanasia, attiva o passiva. Ben sapendo come il confine tra l’accanimento terapeutico e le cure necessarie alla sopravvivenza non può essere così netto e meccanicamente definito.
Riprenderemo queste tematiche, man mano che una legislazione inizierà a prendere forma. Oggi ci limitiamo a considerare il tema del suicidio.
Ci dicevamo la settimana scorsa che il suicidio non è un diritto, ma una tragedia. Per chi lo decide e per chi gli è vicino. Tante altre parole abbiamo sentito questi giorni: vivere è un dovere; morire non è un diritto; la vita è un dono di Dio e come tale non ci appartiene; la vita è sacra, nessuno ha il diritto di togliersela o di aiutare un altro a farlo; legalizzare il suicidio e l’eutanasia è una conquista di libertà...
Provo a dirvi, e a dirmi, dove sono io. Non è la verità: è semplicemente la mia verità, il punto in cui oggi, con la mia età e la mia esperienza, io mi ritrovo. Non so dove la vita mi porterà. Quali incontri, quali circostanze mi metterà davanti. Con quali mi chiederà di confrontarmi. Oggi sono convinto che il suicidio, oltre che una tragedia, è una sconfitta. Non tanto per chi lo decide: solo in minima parte, credo. È una sconfitta soprattutto per le scienze, mediche e psicologiche, che ancora non sono in grado di offrire una risposta adeguata a tante situazioni di sofferenza. E, per ragioni diverse, per le persone vicine a chi decide di morire.
A una persona che si trova in condizioni di vita che non riesce a contenere; che sente che le sue forze sono finite; che chiedendo aiuto non ne trova, o non lo trova nei modi e nell’intensità che rispondano al suo bisogno; sola, con il suo dolore, la sua sofferenza e la sua disperazione; con il tempo non più scandito dalla notte e dal giorno, dal sonno e dalla veglia, ma dalla lotta, ininterrotta e senza prospettive d’uscita, tra dolore e morfina – con quest’ultima che perde sempre più terreno... posso dire morire non è un diritto? Certo, morire non è un diritto: diritto è vivere. Ma vivere come? Ecco perché parlo di sconfitta: perché, allo stato delle cose, non posso non riconoscere che questa persona possa scegliere anche di morire.
Ancora. Oggi io sto abbastanza bene. Come la maggior parte di voi che state leggendo, credo. Qualche acciacco sì, ma non così drammatico. Oggi riesco a dirmi che la vita che ho è un dono di Dio, segno della sua cura paterna-e-materna verso di me. Ma come posso dire queste parole a una persona che vive i suoi giorni oppressa da dolori e sofferenze che neanche le cure più forti sanno controllare? Come posso dirle a una persona che si vede abbandonata sul letto d’un ospizio, incapace di muoversi, piena di dolori, attaccata ad una macchina, circondata da persone che sbuffano, sfinite per l’accudimento continuo che le devono garantire, con qualche amico o parente che va a vederla sì e no una domenica ogni tanto? E, in ultimo, mi chiedo: sarò in grado di ricordarle a me stesso il giorno in cui dovessi trovarmi nelle medesime condizioni?
Sono domande aperte. Che non possiamo chiudere girando lo sguardo altrove.
Con il rischio, così, di cadere in due possibili trappole.
Rifugiarci in facili enunciazioni di princìpi-non-negoziabili. Chiarissimi. Inequivocabili. Ma altrettanto astratti e lontani dalla concretezza della vita. E l’altra, opposta: guardare al suicidio o all’eutanasia come facile risposta, o facile via di soluzione. Liberandoci, in questo modo, da due domande. Irrinunciabili a mio parere. La prima: quali investimenti, come società civile, stiamo facendo per la ricerca, sia nella lotta contro malattie tuttora inguaribili, sia per il miglioramento e potenziamento delle cure palliative? E l’altra, personale: quanto sono disposto a spendere io, in tempo e attenzione e vicinanza, nei confronti di chi si trova in condizioni tanto estreme?
(3. continua)