12 lug 2020
Troppo spesso dimentichiamo che tra autorità e autorevolezza...
... c’è di mezzo il mare
Quale insegnante non ha l’autorità di mettere un voto al compito o all’interrogazione di un suo alunno? Quale genitore non si sente autorizzato a richiamare un figlio dicendogli cosa fare e come comportarsi nelle diverse circostanze? Quale dirigente scolastico non considera suo dovere dare direttive al corpo docente? Un capufficio ai suoi collaboratori o un capofficina agli operai. Un direttore di giornale al comitato di redazione o un segretario di partito agli aderenti alla sua parte politica.
Esempi che potremmo moltiplicare all’infinito. Chiunque ha una posizione dirigenziale ha l’autorità per dare indicazioni, direttive, ordini. L’AUTORITÀ deriva dalla funzione che una persona svolge. Dal posto che occupa in una certa istituzione. Governo, azienda, partito, scuola. Perfino istituzione religiosa. Perfino famiglia. Occupare una posizione pone ciascuno di noi in una scala gerarchica. Il superiore ha l’autorità. Gli appartiene semplicemente per il posto che occupa. Un genitore è un genitore e ha l’autorità di genitore. Un dirigente è un dirigente e ha l’autorità di dirigente. Se volessimo tentare una definizione, potremmo dire che essa è una sorta di potere di controllo su opinioni, atteggiamenti e comportamenti, sia di singoli sia di gruppi.
Su cosa si fonda questo potere? Nella storia origini diverse gli sono state assegnate. Il pensiero greco, con Platone e Aristotele, vedeva una differenziazione naturale tra gli uomini: ce n’erano alcuni che per natura avevano la capacità, quindi il diritto, di esercitare l’autorità. Il governo dell’aristocrazia, il governo dei migliori (àristoi, i migliori e kratêin, avere potere). La cultura ebraico cristiana ha spostato l’accento: la radice di ogni autorità è nel sovrannaturale. Ogni autorità deriva dall’alto: papa o re o imperatore, ciascuno di questi è il rappresentante di Dio sulla terra.
Oggi, almeno nel mondo occidentale, ne vediamo l’origine nella funzione che una persona deve svolgere in relazione al posto che occupa. E sul piano socio politico l’autorità non viene più da un dio, comunque lo vogliamo chiamare, ma dal consenso del popolo. Poi sappiamo bene, purtroppo, come questo pensiero non sia così universale: in diverse nazioni ci si appella ancora alla divinità o al partito o ad un presunto diritto di sangue (Paesi islamici, Cina, Nord Corea...).
Ma c’è un’altra parola che abbiamo bisogno di coniugare. Sia chi l’autorità ha il compito di esercitarla sia chi ad essa deve stare sottomesso: è AUTOREVOLEZZA.
Spesso capita che usiamo queste parole quasi fossero sinonimi. Confondendole e trattandole come se esprimessero la medesima realtà. I linguisti sùbito ci direbbero che l’italiano, ricchissimo di parole e invidiabile per la sua musicalità, non ha sinonimi: non ci sono cioè due parole con lo stesso significato. Proviamo quindi ad entrare in questa seconda parola.
Mentre l’autorità ti appartiene per il posto che occupi, l’autorevolezza te la devi guadagnare. L’autorità di padre verso i figli ce l’hai semplicemente perché ne sei il padre. Così è per un insegnante verso i suoi alunni. Così per un dirigente o il titolare di un’azienda.
Perché te la devi guadagnare? Perché due voci concorrono a definirla: competenza e umanità. La competenza non la trovi sulla poltrona su cui ti siedi. Puoi solo costruirtela. Con lo studio, per esempio. Con l’esperienza. Con la capacità di confrontarti con chi ne sa più di te o ha un’esperienza maggiore e più ricca della tua. Sia per il tempo che vi ha dedicato sia per le occasioni e gli incontri che la vita gli ha offerto.
E l’umanità? Umanità è capacità di essere in relazione. Con gli altri. Subalterni o collaboratori. Questa non te l’insegna nessuno. Altri possono offrirti stimoli. Anche preziosi. Ma accoglierli dipende da te. Se sai ascoltare, ricercare e coltivare il confronto e il dialogo, con umiltà, senza presunzione, questi ti arricchiscono in umanità. E tu acquisti autorevolezza.
Scrive Platone: «In tutta la loro esistenza costoro non riescono a vivere con nessuno un rapporto d’amicizia, essendo sempre o tiranni o servi. Del resto la natura del tiranno non conosce il gusto dell’autentica libertà e amicizia».[1] E a chi nella vita ricerca o si ritrova, anche senza averlo cercato, in posti di responsabilità che gli chiedono di esercitare un’autorità, ricorda: «Non dicevi di aspirare al governo della città? Sì, però non con la forza, come i tiranni, ma col generale consenso come anche altri stimabili cittadini della nostra città».[2]
È triste vedere persone o gruppi, o addirittura popoli, governati, in pieno XXI secolo, da uomini d’autorità ma privi di autorevolezza. E davvero deprecabile è colui che solo con l’autorità che gli deriva dal posto che occupa, senza coltivare l’autorevolezza, pretende di governare.
Proviamo a non dimenticare: tra autorità e autorevolezza... c’è di mezzo il mare!
[1] Platone, Repubblica IX, 576 B
[2] Platone, Teagete 126 A