No, grazie. Distanziamento sociale no. Distanziamento fisico, sì. Anche distanziamento sanitario, se preferiamo. Ma non sociale. Non mi piace. Meglio, non ci piace.
Noi siamo animali sociali, abbiamo bisogno di essere e di vivere in relazione. Momenti di solitudine e di isolamento dagli altri sono senz’altro salutari, ma se sono momenti. Non se diventa una regola generale e costante. Non capisco perché siamo caduti in un linguaggio che ci fa male. Ma è solo un problema di termini, mi direte. È un problema di termini, certo. Ma non è solo questione di usare una parola sbagliata. Le parole hanno un significato. E il significato arriva in profondità. Nella mente. E il pensiero si traduce in emozioni.
Quando guardiamo un bambino o un ragazzo, uno dei parametri che gli esperti, educatori, insegnanti, specialisti guardano, dal nido fino alle superiori, è la sua capacità di socializzare. Proprio questa parola usiamo. Socializzare. Che significa capacità di entrare in relazione con gli altri. Coetanei e adulti. Un bambino o un ragazzo che si isola ci preoccupa. E la preoccupazione è tanto più grande quanto più è profondo, e duraturo nel tempo, il suo isolamento, la sua difficoltà ad entrare in relazione. L’isolamento sociale, che nelle forme più serie diventa ritiro sociale, è così preoccupante che arriviamo a definirlo sintomo, cioè segnale di un disturbo che ha bisogno di una terapia.
È piuttosto frequente che uno psicologo venga consultato dai genitori perché un figlio passa, chiuso in camera, la maggior parte del suo tempo. Situazioni estreme ci fanno incontrare ragazzi e ragazze che non escono neppure per mangiare. Conosciamo ormai da qualche tempo la parola giapponese hikikomòri. Significa stare in disparte. La usano in Giappone per indicare persone che si ritirano dalla vita sociale fino a raggiungere livelli di isolamento e di confinamento estremi. Sono in genere giovani, che non sono più in relazione. Con nessuno. Neppure con i familiari.
Ho incontrato di recente una famiglia la cui figlia di 15 anni se ne sta chiusa in camera. Non va neppure a scuola. Non incontra nessuno. Tollera appena che un’amica qualche volta la chiami al telefonino, ma non può andarla a trovare. Si alza a mezzogiorno, in pigiama, dopo tante insistenze va a mangiare. Poi si ritira di nuovo. Il suo mondo è la sua camera.
Ecco perché distanziamento ‘sociale’ non mi piace. Perché è a noi, umani, che non piace. Anche il linguaggio ha la sua importanza. Parliamo di distanziamento fisico, dicevo. Perché adesso è di questa misura che abbiamo bisogno per cercare di contenere la diffusione di questa pandemia.
C’è un’altra cosa che mi colpisce. La scienza medica ha fatto progressi straordinari. La tecnologia è in così rapida evoluzione che non riusciamo neppure a starle dietro: se acquistiamo l’ultimo modello di computer o l’ultimo smartphone che è sul mercato, il giorno dopo sono già vecchi: ce n’è già un altro più potente. Siamo andati sulla luna e ci stiamo preparando per raggiungere Marte. Siamo in grado di comunicare da una parte all’altra del pianeta. Conosciamo la terra, la sua storia, sappiamo che è parte di un sistema solare che a sua volta è parte di una galassia che non è che una delle milioni di galassie che compongono l’universo che è sempre in espansione... e tutto questo ci fa girare la testa! E di fronte a Covid19 come siamo messi? Com’erano messi nel medioevo di fronte alla peste. Distanziamento fisico. E com’erano messi tremila anni fa di fronte alla lebbra: «Il lebbroso colpito dalla lebbra... verrà isolato e abiterà fuori dell’accampamento. E griderà impuro! impuro! Quando una macchia (di lebbra) apparirà su un vestito, il sacerdote – allora erano i sacerdoti che detenevano il sapere – esamini la macchia e rinchiuda per sette giorni l’oggetto colpito dalla macchia...».[1] Non trovate somiglianze, analogie con le indicazioni che ci dànno i sacerdoti, cioè i virologi, del XXI secolo? Oggi chi ha contratto il virus non deve gridare impuro, impuro, ma la sua presenza dev’essere ugualmente segnalata perché contagioso. È cambiato solo il modo: allora dovevano gridare, oggi un’App sul cellulare.
Qualche settimana fa riflettevamo sulla necessità di recuperare la nostra dimensione di terrestri, esseri viventi che apparteniamo alla terra. Vi apparteniamo come ne erano parte i lebbrosi di tremila anni fa. E come terrestri, in questo momento, accanto alla ricerca scientifica, che ci auguriamo porti presto alla scoperta di farmaci capaci di neutralizzare Covid19, abbiamo la necessità di mettere una distanza fisica tra noi.
Ma distanziamento fisico, un metro abbondante. Non sociale!
[1] V. Levitico 13 e 14