1 nov 2020
Con la mascherina, distanziati, in visita ai cimiteri
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
- Chi sei?
- La morte
- Sei venuta a prendermi?
- È già da molto che ti cammino a fianco
- Me n’ero accorto
- Sei pronto?
- Il mio spirito lo è, non il mio corpo. Dammi ancora del tempo
- Tutti lo vorrebbero. Ma non concedo tregua
Ma Antonius Block, il cavaliere tornato dalle crociate, non cede. E continua:
- Tu giochi a scacchi, non è vero?
- Come lo sai?
- Lo so. L’ho visto nei quadri. Lo dicono le leggende
- Sì, anche questo è vero, com’è vero che non ho mai perduto un gioco
- Forse anche la morte può commettere un errore
- Per quale ragione vuoi sfidarmi?
- Te lo dirò se accetti
- Avanti, allora
- Perché voglio sapere fino a che punto saprò resisterti. E se, dando scacco alla morte, avrò salva la vita.[1]
Iniziano la partita. Ma non è alla pari. Lei sa che l’avrà vinta: Non ho mai perduto un gioco, dice. Giocherà pure sporco. Ma è il suo gioco. E scacco matto sarà l’ultima mossa.
Sì, lo sappiamo. Per quanto vogliamo mettere in campo la nostra abilità di giocatori, dovremo incontrarla, e nell’incontro finale saremo accolti fra le sue braccia.
Questi giorni, in tempi di normalità, saremmo andati nei cimiteri. Magari ci andremo ugualmente. Pur con tutti gli accorgimenti da mettere in campo per proteggere la salute, nostra e dei nostri familiari. Se la visita al cimitero sempre ci ha messo davanti alla domanda delle domande, quest’anno porteremo con noi uno stato d’animo un po’ più pesante. Vi troveremo anche amici e parenti che la partita a scacchi l’hanno perduta. In tempi troppo rapidi. E inaspettati. Un alleato infido, infatti, ha chiamato in campo la morte nel suo gioco. Covid19 continua il suo assedio.
Dovremo darci per vinti? Non credo sia questo il punto. Né bulli né sconfitti. Semplicemente umani. Consapevoli di percorrere il nostro tempo nel sentiero in cui la vita e la morte sono nostri compagni di viaggio. Non terrorismo né dichiarazioni d’onnipotenza. Capaci, invece, di tenere aperto il dialogo con quella scintilla luminosa che è la nostra anima, attenta e consapevole della ricchezza del tempo e dello spazio in cui ci muoviamo e di cui siamo parte.
Doveva essere la consapevolezza di trovarsi immerso in questo flusso di Vita, che non è annientato dalla morte ma solo trasformato, che ha portato Isaia, venticinque secoli fa, a scrivere: Colui-che-vive distruggerà per sempre la morte.[2] La morte intesa come colei che sa scrivere solo la parola fine. La stessa consapevolezza che porterà Paolo di Tarso, un fariseo convertito all’insegnamento di Gesù di Nazareth, cinque secoli dopo, a riprendere questo pensiero e ampliarlo: Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?[3] Nella loro anima sapevano cogliere che non è la parola fine quella che scrive la morte. Ma passaggio. Trasformazione.
Dove siamo noi? Quando ci concediamo un po’ di silenzio, lontani dal frastuono della confusione e della corsa, possiamo cogliere le due voci. Perché entrambe abitano la nostra anima. Il cavaliere crociato che con le sue sole forze sfida la morte, e il profeta che, consapevole del limite, sa cogliersi nelle braccia della Vita. Che gli permette di vedere oltre. Oltre il confine che la morte, colta soltanto nella precarietà del tempo, sembra segnare e chiudere.
Quando questi giorni saremo davanti alla tomba di quell’amico o parente che ritroviamo al cimitero, concediamoci un momento di silenzio. Di respiro. Proviamo a non farci trascinare dal chiacchiericcio che quasi sicuramente cercherà di catturarci. Una preghiera o un pensiero o semplicemente una pausa per ascoltare il nostro respiro. Una parola, che nel silenzio ci scambiamo con chi è lì, di fronte al suo corpo, stanco, in una tomba.
Magari riusciremo a sentire che la vittoria della morte è una vittoria effimera. E la voce antica di Isaia, Colui-che-vive distruggerà per sempre la morte, inizierà a risuonare nel nostro cuore.
[1] I. Bergman, Il settimo sigillo, 1957
[2] Isaia 25,8
[3] 1 Cor 15,55