7 giu 2020
È solo nel contesto che si comprende il significato
In cartellone
Stasera in cartellone c’è la Quinta di Beethoven. Sì, però siccome a me piace di più la Settima, io suonerò questa, dice uno dei professori d’orchestra. Aggiungendovi, magari, che... in fondo è sempre Beethoven. Dopo avergli chiesto se è o ci fa, di fronte alla sua insistenza gli diremmo di farsi curare! No? Non si può uscire dal programma in cartellone. Molte volte, invece, quando proviamo a interloquire con qualcuno, facciamo proprio come questo maestro d’orchestra che vuol suonare la musica che piace a lui.
Così mi sono sembrati alcuni interventi nei numeri scorsi di Voce che pure dicevano di voler dialogare con qualcuno dei pensieri che io avevo scritto. Va bene suonare la Settima, sinfonia bellissima, ma se non è in cartellone, sei fuori programma. Fuori contesto.
Più d’uno, tra gli amici che sono intervenuti, hanno puntato il dito sulle parole pezzetto di pane che avevo messo nel mio Un’altra gaffe!? del 10 maggio. Isolandole però dal contesto in cui erano collocate e in cui nascevano, e dentro il quale avevano, e hanno, tutto il loro significato.
Due elementi di contesto.
Il primo. Il pezzo nasceva in un momento in cui una parte della comunità cattolica, primi fra tutti un buon numero di uomini di chiesa, sottovalutando la gravità della situazione sanitaria, si stava ponendo su un sentiero di opposizione e di contrasto alle indicazioni-prescrizioni che il governo dava nel tentativo di contenere la pandemia. Quasi ci fosse una sorta d’invasione di campo: “Non possono essere altri a decidere cosa si fa dentro la Chiesa, altrimenti si è fuori dal dettato costituzionale”; “Non possiamo disattendere una richiesta, anzi un grido che viene dalla nostra gente: il grido di chi chiede di poter partecipare alla S. Eucarestia”; “Il digiuno per sua natura è un momento: se si prolunga conduce alla morte”; fino a estremi, tipo “Corresponsabilità non vuol dire tradimento del popolo”; “Basta, adesso siamo in una dittatura...”. Clima non spento, se pensiamo che appena qualche giorno dopo in parlamento – ripeto, in parlamento – l’onorevole di turno tuonava: “Non bisogna essere scienziati del diritto per capire che siamo stati e continuiamo ad essere in presenza di una volontà antireligiosa fortissima”.
L’altro elemento di contesto fa riferimento al pensiero che sottostà, a mio parere, a tanta reazione: impossibilità di fare la comunione, come abitualmente diciamo, significa impossibilità di nutrirci del “pane vivo disceso dal cielo”, come Gesù definisce se stesso.[1]
In questo contesto vanno lette le mie parole. Altrimenti suoniamo la Settima quando in cartellone c’è la Quinta. “Possibile che non potendo ingerire un pezzetto di pane (un’ostia) dobbiamo pensare che ci è impedito di nutrirci di te?” avevo scritto, in un dialogo aperto con Gesù.
Fino al punto da dover riprendere la parola cosificazione. Parola offerta alla riflessione anche dei padri conciliari, quasi sessant’anni fa, dal teologo belga Edward Schillebeeckx, uno dei consulenti (tra gli altri c’erano anche H. Küng e J. Ratzinger) chiamati al Vaticano II.
Cosa vuol dire cosificazione? Significa che il segno diventa la realtà significata. All’oggetto (pane) viene tolto il valore di segno, e gli si attribuisce la forza in sé, una forza quasi magica. Non è più il segno della presenza reale in corpo e sangue di Gesù, ma è il corpo e sangue (nel linguaggio semitico corpo-e-sangue significano persona). Pensiero che porta facilmente a scivolare verso una visione idolatrica, magica di un oggetto.
Giustamente è stato sottolineato che partecipare alla Celebrazione Eucaristica significa sia nutrirsi della Parola e del Pane di Vita, sia nutrirsi dell’essere Comunità, fratelli, come Gesù chiama i discepoli. Perché noi umani, esseri-in-relazione ricorda la psicologia, siamo, in un linguaggio più propriamente religioso, esseri-in-comunione.
Adesso abbiamo ripreso la celebrazione eucaristica, pur con tutte le limitazioni del caso. Mio grande timore è che il finalmente si riparte, ci faccia ritornare al... tutto com’era prima. Temo che molti di noi questo tempo di digiuno non l’abbiamo fatto nostro. L’abbiamo ingoiato per forza e nient’affatto metabolizzato. Né, a me pare, ci stiamo provando. Quasi che lo stomaco della religiosità non ne voglia sapere. E quando di un cibo lo stomaco non ne vuol sapere, sa fare solo una cosa: lo vomita. Così non ci rimarrà che costatare come la religione, con i suoi riti, cerimonie, usanze e precetti, riprenderà di nuovo il sopravvento sulla spiritualità.
Vi sembra questa mia una visione pessimista? Forse. È che mi rimane difficile leggere tanti segni e tanta agitazione nel fare fare fare... come segnali di riflessione. E di rinnovamento.
Chi può m’aiuti a riconoscere che mi sto sbagliando!
[1] Giovanni 6,51