22 nov 2020
25 novembre. Giornata mondiale contro la violenza sulle donne
Mille facce
Mi sono innamorata la prima volta a quindici anni
E venni picchiata da mio padre
Mia sorella rideva e mia madre guardava
Non umiliare la mia famiglia, mi veniva detto
Fui violentata e data in sposa a mio zio
Ogni giorno mi ritrovai in un letto diverso
Incinta quando ero io stessa bambina
Insultata
Ho perso la mia personalità
E non c’era nessuno accanto a me.[1]
Altri tempi altri luoghi, direte. Altri tempi, no. Sono i giorni nostri. Altri luoghi, sì, almeno come norma. La donna oggetto e proprietà dell’uomo, vista in queste immagini che sentiamo terribili per la violenza che portano, non è regola o condizione da cui la nostra casa è immune. E non penso tanto al femminicidio, forma tanto estrema quanto eccezionale. Il mio pensiero va alla normalità del quotidiano, da una parte. E alle nuove forme di appropriazione che la nostra società, avanzata, ha costruito.
Ho usato la parola eccezionale accanto a femminicidio. Sia chiaro, anche fosse uno solo, contiene in sé tutta l’assurdità e la violenza del mondo – e non è uno solo, purtroppo: quest’anno siamo già al numero 76. Con quella parola intendo evidenziare il pericolo che quando parliamo di violenza contro le donne, subito il nostro pensiero va a questi episodi. E lì si ferma. Con il rischio di sentirci a posto. Innocenti. Assolti.
C’è la violenza fisica, quella che lascia i segni nel corpo. Oltre che nel cuore. C’è la violenza della gelosia, che in ogni parola o gesto o sorriso sa leggere solo il tentativo di sfuggire all’uomo proprietario. C’è la violenza del doppio, triplo, quadruplo lavoro cui ogni donna viene sottoposta in famiglia. “Papà, non capisco quando dici che aiuti la mamma in casa se anche tu vivi qui” dice il bambino al padre che sta lavando i piatti.
C’è la violenza dell’aborto. Quel dramma che alcune donne, troppe donne, si trovano a dover vivere. Gravidanze nate da violenza. Da sessualità forzata. Perfino all’interno della stessa casa. Ho incontrato una donna, sessantenne, con un carico di tre aborti. Costretta in tutti i modi dal marito che non voleva altri figli. E non voleva neppure prendere precauzioni nella loro intimità. Troppo sacrificio per lui non essere libero di fare l’amore quando e come voleva. Fare... l’amore?
C’è la violenza della maternità che nega la maternità. Gestazione per altri la chiamano. Altri maternità surrogata. Secondo me dovremmo avere il coraggio delle parole giuste, anche se meno eleganti. Lei ridotta a un utero. Che ospiti e faccia crescere un ovulo fecondato fino alla fine del percorso. Deve prestare il suo utero. Meglio, darlo in affitto. Per nove mesi. Poi quello che era il suo bambino non sarà più suo: dovrà lasciarlo andare. E lui, il bambino, dovrà abbandonare quella che è stata sua madre. I nove mesi condivisi, nel corpo e nel cuore, cancellati. Ignorati. Dicono che non c’è violenza perché lei è pagata. Ma chi paga veramente? Il committente che dà soldi o lei che deve abbandonare il suo bambino? (E non guardiamo oggi l’altra domanda: quanto deve pagare il bambino costretto a perdere sua madre?).
C’è la violenza del posto di lavoro. Disparità di trattamento economico. Molestie o stalking da colleghi o superiori. Dimissioni già firmate se dovesse rimanere incinta. Carriera, spesso, a condizioni umilianti. Messa addirittura in concorrenza con chi queste umiliazioni accetta di subirle.
Mille facce ha la violenza.
Ma oggi, accanto, due notizie positive.
Una donna è diventata Rettore alla Sapienza, a Roma. È la prima volta, dopo settecento anni.
Anna, quindicenne, Down, è in un liceo a Roseto degli Abruzzi. Per lei la scuola è in presenza: è già difficile la vita per chi dispone di meno abilità. Ma lì è rimasta sola: per gli altri c’è la didattica a distanza. Cinque compagne di classe decidono di rientrare a scuola per stare insieme a lei. Questa è solidarietà. Complicità sana. Amicizia. Ahimsa, non-violenza. Dov’era la violenza? Nella solitudine cui Anna era costretta. A scuola sì, ma sola, senza amiche. Sola, con un adulto, che poteva soltanto passarle qualche nozione, addestrarla in qualche abilità. Ma non è questo la scuola. Le sue amiche l’hanno capito bene.
Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti, cantava De Andrè.[2] Sono sicuro, la maggior parte di noi non attua comportamenti o atteggiamenti di violenza nei confronti della donna. Ma siamo lo stesso coinvolti. Se una donna su tre subisce violenza. Se continuiamo a coltivare stereotipi e tradizioni radicate nella nostra cultura. Maschile. Maschilista. Con l’uomo su un gradino più alto per dignità e rispetto. E la donna subalterna. Se noi non muoviamo niente perché questo modello culturale si modifichi. Sia superato.
[1] Siyah (Nero) di Karsu Dönmez, cantante turca
[2] F. De Andrè, Canzone del maggio
* V'invitiamo a leggere Due tra le mille facce