4 ott 2020
Il difficile compito di coltivare la propria libertà
Pensare o non pensare
“Anche noi italiani amiamo la libertà, ma abbiamo a cuore anche la serietà” così il nostro Presidente in risposta alla battuta del Premier britannico secondo cui gli inglesi, a differenza di italiani e tedeschi, amano la libertà: per questo la ripresa dei contagi in Gran Bretagna sarebbe molto più alta che da noi... No comment, Mr. Johnson!
“Voi non dovete pensare: c’è chi è pagato per farlo al posto vostro”. Così si è sentita rispondere una ragazza che si stava arruolando nelle forze armate. Parole sacrosante: le hanno fatto comprendere che valeva la pena investire la vita in altri progetti.
Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka, alla giornalista che nel carcere di Düsseldorf gli chiedeva cosa provasse a mandare a morte migliaia di persone: “Perché continua a chiedermi cosa provavo? Io non ero incaricato di provare qualcosa, ma di far funzionare il sistema. E siccome, da come l’avevo impostato, il sistema funzionava alla perfezione, ero un ottimo funzionario”.[1]
Qualcosa da ridire? Molto, direi. Tre episodi. Tre contesti differenti che, ovviamente, hanno un peso diverso. Ma che hanno qualcosa in comune: usare la propria testa per pensare non è apprezzato da chi sta sopra. Il funzionamento di un’istituzione può arrivare perfino a chiederti il sacrificio del tuo pensiero.
“Un uomo libero si confronta sulle idee” mi ha scritto un amico, recentemente, in risposta a certe mie osservazioni che rischiavano di apparire troppo di parte. Quasi per partito preso. E aveva ragione. Una persona libera si confronta sulle idee e non sulle appartenenze. Non c’è casacca o divisa. Non c’è disciplina di partito o ossequio alle gerarchie che giustifichi la rinuncia a costruirsi le proprie idee, coltivarle, e confrontarsi con l’altro mettendole sul tappeto dell’incontro. Solo così nasce il dialogo. Solo così, come singoli e come comunità, possiamo procedere in senso evolutivo. Nella conoscenza e nell’incontro. In una parola, nella democrazia. Quella che, diceva Churchill, sarebbe “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Credo proprio che avesse ragione. È la peggiore nel senso che è la più difficile. Per chi deve dirigere e per chi è subalterno. Una medesima tentazione coinvolge entrambi, infatti. Ai lati opposti. I capi sono convinti che a loro è riservato il compito di pensare. Quindi di valutare. Quindi di decidere. Sta a loro definire ciò che è giusto e ciò che giusto non è. E i collaboratori ideali sono quelli che, riconoscendone l’autorità, la pensano proprio come loro. In compenso, in cambio di tanta sudditanza e ossequio, sono dispensati dalla fatica di pensare. Ci sono loro che pensano. Gli altri devono seguire. Ed essere felici nel trovare che c’è chi pensa per loro. Che significa: chi pensa al loro posto. I capi non amano le teste calde – così definiscono quelli che la propria testa cercano di conservarla in funzione.
Coltivare un pensiero, farsi delle domande, ingaggiarsi nel confronto di idee è vissuto spesso come un pericolo per la stessa sopravvivenza di un’istituzione. Chi osa farsi domande e, di conseguenza, fare domande non è un buon collaboratore. “Io non ero incaricato di provare qualcosa – noi potremmo dire di pensare – ma di far funzionare il sistema” sosteneva il comandante delle SS di Treblinka. Si fosse permesso di chiedersi se fosse giusto uccidere un altro essere umano solo perché di un’altra tradizione culturale o religiosa, dove sarebbe andata a finire l’efficienza e la solidità di una macchina così ben strutturata?
Chi osa credere che la testa ci è stata data per pensare è un eretico. E non c’è parola più giusta per definirlo. Il greco aìresis (da cui eretico trae origine) significa ricerca, scelta. Per scegliere è necessario pensare. Pensare significa coltivare il dubbio. Farsi domande. Ascoltare. Sé e l’altro. Ricercare, appunto. Quante volte in questo periodo ci siamo sentiti ripetere questa parola. E se sul piano delle scienze ci stiamo prendendo confidenza, è altrettanto necessario che lo facciamo sul piano del pensiero. La ricerca. Nei valori, nel rispetto di sé e degli altri, nel rispetto della natura di cui siamo parte.
Un ambito dov’è ancora piuttosto difficile riconoscere a questa parola diritto di cittadinanza è l’area delle religioni. Molto spesso queste si presentano come complessi dottrinali ben strutturati. Che gli uomini dell’istituzione si premurano più di conservare che di aprire all’ascolto del nuovo che l’essere umano, nel suo viaggio nella storia, tra natura e cultura, incontra e costruisce.
Una bella contraddizione. Perché se il pensiero è un dono di Dio – qualunque sia il nome con cui le varie religioni Lo chiamano –, possibile che proprio Lui ne voglia impedire l’uso e ne tema la libertà?
[1] Gitta Sereny, In quelle tenebre, 1974