VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

6 giu 2021

Per guardare seriamente il problema delle migrazioni

Bambini

Qualche giorno fa siamo stati sconvolti dalle immagini dei bambini, morti, che il mare ci ha voluto restituire riportandoli sulla spiaggia libica. Ce le ha recuperate Open Arms. Proviamo a prendere sul serio questi bambini. Guardiamoli qualche minuto. E non andiamoci subito a rifugiare nell’indifferenza. Sono morti. Insieme agli altri cinquecento che dall’inizio di quest’anno sono in fondo al Mediterraneo.

Perché loro sono morti e noi siamo vivi?

Un genitore che sale su un barcone con suo figlio, senza sapere se riuscirà ad arrivare all’altra riva, ci dice che la condizione di vita in cui si trova non gli permette altra scelta. Il flusso di disperati che cerca una vita minimamente decente è enorme. E continua a crescere.

Hai voglia a pensare al blocco navale. Che, tra l’altro, è una pura sciocchezza data l’impossibilità reale a metterlo in atto. Poi? Anche riuscissimo a concretizzarlo, abbiamo forse risolto il problema delle condizioni di vita disperate in cui abbiamo ridotto tante popolazioni?

 

Facciamocela questa domanda. Perché il problema delle migrazioni è il risultato della nostra politica. Di noi, paesi occidentali. Il nostro benessere è stato costruito su un rapporto impari tra noi e loro. Abbiamo sfruttato i paesi africani acquistandone le risorse a pochissimo prezzo. O addirittura prendendole con la forza, nell’epoca del colonialismo armato. Abbiamo desertificato quelle terre. E continuiamo a farlo non affrontando in maniera efficace il problema dell’inquinamento e del sovrasfruttamento delle risorse.

E con le guerre? La vendita delle armi è una delle voci più fiorenti nel nostro bilancio. L’Italia è il terzo esportatore al mondo. Sentivo questa riflessione: noi vendiamo le bombe, poi pretendiamo che chi se le vede gettare sulla testa rimanga lì, a prenderle. E non siamo in grado di cogliere, neanche qui, il collegamento tra il benessere che ci deriva da questo mercato e il fatto che chi scappa dalla guerra possa venire da noi, che sotto queste bombe non ci siamo.

 

Dove nascono allora l’indifferenza e la superficialità con cui guardiamo questo problema?

Due aspetti, credo, ne sono alla base.

Il primo. La nostra sensibilità è limitata dalla distanza spaziale che s’interpone tra me e il luogo dove avviene un certo fatto. Quei bambini che il mare ha riportato sulle spiagge libiche ci hanno colpito. Per un giorno. Poi subito dimenticati. Fossero arrivati a Senigallia o a Portonovo, qualche giorno di più li avremmo ricordati. Se poi trovassimo il coraggio di guardarla quella bambina con il pigiama con le stelline, e metterci accanto la foto della nostra bambina... chi sa, forse una domanda in più riusciremmo ad ascoltarla.

C’è poi un altro aspetto. Che è proprio di questa generazione. Oggi per noi fame, guerra, campi di concentramento, naufragi sono delle rappresentazioni. E c’è una grande distanza tra la realtà e la rappresentazione. Una distanza invalicabile.

Io credo di sapere cos’è la guerra perché posso vederla su uno schermo mentre me ne sto seduto sul divano. Così un campo di concentramento. Mio padre non riusciva a guardare quelle immagini di guerra: per lui la guerra era realtà, come realtà era il campo di concentramento. Li aveva vissuti. Da dentro. Tre anni della sua vita ci aveva passato. Lui sapeva realmente cosa fossero. Io no.

E la fame? Voi sapete cosa sia? Io no. Non l’ho mai vissuta. Il sazio non crede alla fame, si dice. Ed è profondamente vero. Noi conosciamo la rappresentazione della fame. Noi viviamo di rappresentazioni. Non sentiamo. E i campi di concentramento pieni di immigrati, dentro i quali vengono riportati quei profughi che sono recuperati dalla guardia costiera libica, cui abbiamo dato anche le necessarie attrezzature, li vediamo? Facciamo qualcosa perché si chiudano?

Noi vediamo cose che capitano ad altri. Ecco perché perfino quella bambina con il pigiama a stelline, riportata dal mare sulla spiaggia libica, è per noi soltanto un’immagine. La rappresentazione di una bambina. Morta. Semplicemente perché i suoi genitori tentavano di portarla in un posto dove potesse trovare una risposta al suo desiderio di vita.

 

Due domande proviamo ad ascoltare. Cosa stiamo facendo noi per riparare allo sfruttamento cui negli ultimi duecento anni abbiamo sottoposto quei paesi? E cosa devono fare loro oggi se non muoversi per cercare una terra che dia il necessario per vivere?

Se potessimo ascoltare queste domande, credo che perfino certi nostri politici la smetterebbero di dire sciocchezze del genere “L’unica soluzione [al problema delle migrazioni] è fermare le partenze con il blocco navale”!

Proviamo ad essere seri. A prendere sul serio questi bambini che il mare ci ha restituito.

Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti ricordava Fabrizio De Andrè.

 

 

* Sei anni fa sulle coste della Turchia... Aylan