Sono sessantadue anni che il popolo tibetano è sotto l’occupazione cinese. Militare, politica e culturale. La Repubblica Popolare Cinese – che di repubblica ha ben poco, di popolare meno ancora dal momento che il potere è nelle mani di pochi gerarchi del partito – ha deciso che il Tibet è una regione della Cina. E il mondo sta a guardare. Meglio, s’è girato dall’altra parte e non guarda nemmeno più.
Per dieci anni Mao Tze Tung, una volta vinte le forze nazionaliste di Chang Khai Shek, andava dichiarando che presto il Tibet sarebbe stato inglobato nella grande nazione comunista e sottratto una volta per tutte allo sfruttamento da parte dei monaci e alle mire delle nazioni imperialiste. Ma questo popolo non interessava a nessuno. Perfino la CIA ha fatto finta d’impegnarsi a suo favore, ben sapendo che l’esercito tibetano era tutt’altro che un esercito, e tanto meno sarebbe stato in grado di fronteggiare le armate cinesi. Dieci anni di guerriglia e di tentativi diplomatici. Finché in ultimo, l’ennesimo moto di ribellione viene soffocato senza troppi complimenti. È il 10 marzo 1959. Da allora il Tibet è solo un nome scritto sulla carta geografica, una provincia della grande (?) Cina.
Lo so che oggi è una guerra persa voler richiamare all’attenzione del mondo la situazione di questo popolo. Ma non credo sia giusto lasciare che anche qui, come si usa dire, la storia la scrivono i vincitori.
Oggi siamo più attenti ai diritti delle minoranze. I curdi Yazidi in Iraq, i musulmani Rohingya in Myanmar, gli Uiguri nella Cina comunista, alcuni dei popoli cui viene negato il diritto di vedersi riconosciuta la propria identità. Non facciamo molto, sul piano pratico, sì e no qualche affermazione di principio e qualche discorso in certi contesti ufficiali. Se non altro se ne parla. Dopo la tragedia della Shoah il mondo occidentale ha voluto affrancarsi dai sensi di colpa per non aver avuto il coraggio di vedere cosa stava facendo il regime nazista con gli ebrei, e ha dato vita alla nazione d’Israele.
Il Tibet? Qualcuno lo vede? Nessuno osa dire neppure una parola. Non l’America o l’Unione Europea, non la Russia o il Regno Unito. Non l’ONU. Neppure le grandi religioni. Non la chiesa cattolica o le altre confessioni cristiane, pure molto attente alle minoranze e ai diritti umani. Chi tocca il Tibet... muore. Guai perfino a ricevere il Dalai Lama, spina nel fianco, finché sarà in vita (ha già 85 anni), del governo cinese. Uno delle migliaia di profughi che son dovuti scappare dopo l’invasione.
E l’occupazione continua. Quella militare, naturalmente. Chi osa mettersi in guerra con l’esercito di Xi? Quella etnica. A sessant’anni di distanza, oggi sono più i cinesi che i tibetani ad abitare questa terra. Il governo di Pechino spinge i suoi ad occupare il Tibet. E se oggi qualcuno lamenta l’occupazione dei territori palestinesi da parte dei coloni ebrei, avete mai sentito voci che si levano contro l’occupazione cinese del territorio tibetano? La domanda stessa, credo, vi coglie di sorpresa.
Ma c’è una terza invasione. Ancora più dannosa. L’invasione culturale. Il Tibet, con la sua tradizione secolare, è terra di spiritualità e di non violenza. Il buddismo tibetano è ricchezza umana che non possiamo permetterci di perdere. In un mondo dove il più forte detta le sue leggi, dove l’istinto di sopraffazione sembra guidare le relazioni tra le persone e tra gli stati, dove i più ricchi (persone e popoli) impongono le proprie regole, non sembra a voi che un po’ di Tibet ci porterebbe una boccata d’ossigeno?
Ce lo siamo già detti, proviamo a ridircelo: di fronte alla pandemia che ci assedia vediamo che i rapporti di forza tra le nazioni governano perfino la distribuzione dei vaccini. Occasione preziosa per richiamare in campo un colonialismo, tanto più negato quanto più subdolo e strisciante. Prima fra tutti, ancora una volta, la Cina, patria dei non-diritti umani. Seguita a ruota dall’amica e rivale Russia di Putin.
Non sarà certo per il tempo della mia vita che potrò vedere qualcuno tra i grandi, nazione o organismo internazionale, che riapra gli occhi su un Paese ridotto in schiavitù. Mi sono bastati pochi giorni di permanenza in Tibet per respirare il dramma di questa popolazione. Se posso prendere in prestito una parola, senza nulla toglierle del suo significato originario, è solo SHOAH che vedo all’altezza d’indicare la tragedia del popolo tibetano.
Chi è rimasto deve subire la presenza invadente e dominante dei coloni cinesi. Chi se n’è andato ha dovuto abbandonare tutto e oggi, profugo, vive rifugiato in India o in Nepal. Fuori dalla sua terra. Lontano dalla sua storia. Ignorato dal mondo intero. E così continuerà. Finché a governare le relazioni tra i popoli sarà la legge del più forte.