26 giu 2022
Federico di Senigallia, il primo suicidio assistito in Italia
Buon volo, fratello
Lascia che sia fiorito,
Signore, il suo sentiero
quando a te la sua anima
e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare,
quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno sole
risplendono le stelle.
La morte è senza parole. Le parole appartengono alla vita. E quando queste tentano di accompagnarci in un sentiero in fondo al quale si vede l’ombra della morte, si smarriscono. E si muovono. A volte con ordine, pure irrigidito, altre in totale confusione.
Non penso alle tue parole, Federico. Ma alle nostre. Le tue vengono da un letto che con te, da dodici anni, era diventato un tutt’uno. Il solo luogo dove un corpo, incapace ormai di qualunque movimento, potesse stare senza il pericolo di stramazzare a terra e frantumarsi. L’incidente che t’eri trovato di fronte aveva lasciato solo al tuo pensiero la libertà di uscire da quella prigione. Ma per un pensiero che il corpo non segue non è facile guardare oltre i muri di una stanza. Tanto più quando questo conserva la capacità di ascoltare il dolore. Fisico e mentale. E da questo dolore arriva a sentirsi sopraffatto. Dolore che né la chimica dei farmaci né la cura delle persone amiche riescono a sciogliere. È questo che mi arriva dalle parole che ci hai voluto lasciare prima di entrare in questa nuova fase della Vita. Che ora, attraversata la porta della morte, hai raggiunto. “Non dovete essere tristi, ci hai detto, perché ora potrò essere finalmente libero di volare dove voglio”.
In questa parte della vita non ci siamo incontrati. I miei occhi non t’hanno visto, né i tuoi hanno incrociato i miei. È il limite della fisicità. Né sapremmo fare diversamente, noi, qui.
Di libertà di volare parli ora. Mi piace quest’immagine che ci lasci. Liberi di volare. In un Cielo che oltrepassa i confini dello spazio e i confini del tempo. Altra dimensione che fa da cornice a questa vita.
Le tue parole.
E le nostre?
Le nostre sono difficili. Difficili da ascoltare, ma più ancora difficili da dire se vogliamo che siano rispettose di quanto abita la nostra interiorità. Facilissime ad uscire invece quando diventano riempitivo – o addirittura riempiticcio – di spazi che dovrebbero ospitare un po’ di silenzio.
Hai deciso di chiudere con questa vita. Suicidio lo chiamiamo. Pare sia stato l’abate Desfontaines, uno dei grandi interlocutori di Voltaire, a usare per primo questa parola quando nel 1737 scrive un articolo per la Grande Encyclopédie: dal latino sui (sé) e caedere (uccidere), uccisione di se stessi.
Ma l’interrogativo che nasce davanti alla possibilità di chiudere volontariamente con la propria vita ha sempre accompagnato gli umani. Messi di fronte al dover coniugare insieme possibilità o necessità. Suicidio d’onore, harakiri lo chiamavano i samurai. Suicidio di disperazione, avrebbe cantato Madama Butterfly. O suicidio di protesta, come i monaci tibetani di fronte all’occupazione cinese del loro paese o Jan Palach nel ’69 contro i carrarmati sovietici a Praga.
Vedi, Federico, tu hai scelto la tua strada, e noi ci ritroviamo con i nostri pensieri e i nostri interrogativi. Ha fatto bene. Ha fatto male. È coraggio o debolezza? È lecito togliersi la vita? Che diventa: la mia vita appartiene a me o a qualcun altro? Coniuge, figli, genitori, amici... Dio? Ma se il buon Dio me l’ha data, meglio, donata, come dicono i credenti, allora non è mia e io non posso disporne secondo la mia valutazione? Un dono è un dono. Sarebbe bella che un babbo regala al figlio una bici poi gli dice: usala con giudizio, perché questa bicicletta è mia. Usala con giudizio mi sta bene. Ma che dica è mia, suonerebbe strano. Come vedi, le domande che ci lasci non sono poche. E altre per oggi te le risparmio.
Un altro pensiero però voglio condividere con te - lo so che sono tanti che questi giorni ti parlano: o forse parlano più di te che con te. Questo è il pensiero, il più pesante: io al tuo posto. Ecco, io al tuo posto cos’avrei fatto? Avrei retto dodici anni in quella condizione o mi sarei arreso prima? Hai visto, ho detto arreso. Dev’essere questa la parola che mi abita – il mio inconscio si fa sentire. Come sempre, oltrepassa i confini della razionalità. Continuo: mi sarei arreso prima o avrei continuato, aspettando il giorno in cui il mio cuore si sarebbe fermato da solo o il mio cervello avrebbe smesso di funzionare, anch’esso in totale autonomia?
Di una cosa, tuttavia, sono sufficientemente certo, amico mio. Sono d’accordo con te, la società civile deve saper rispondere a un cittadino che venisse a trovarsi in condizioni simili alle tue: con gli occhi impossibilitati a guardare oltre un dolore non più sopportabile.
Ti lascio ancora con Fabrizio De André:
... ai suicidi dirà
baciandoli alla fronte:
venite in Paradiso
là dove vado anch’io
perché non c’è l’inferno
nel mondo del buon Dio.[1] Grazie, Federico. Buon... volo!
[1] F. De André, Preghiera in gennaio
* V'invitiamo a leggere Mario, una sconfitta (Mario era il nome che la stampa aveva dato a Federico quand'era ancora in vita), Vivere morire..., Le leggi e l'etica