VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

16 ott 2022

La dipendenza da cellulare, nuova pandemia

Dissociàti?

Nel tavolo accanto una giovane coppia con un bambino sui quattro anni. Mangiano, piuttosto taciturni. Qualche parola ogni tanto. Davanti al bambino il piatto dal quale stancamente prende le patatine e qualche altra cosa che non vedo bene. Vedo invece che davanti a sé ha un telefonino, appoggiato, orizzontale, al bicchiere. I suoi occhi sono lì, incollati allo schermo. La mamma, che vedo perché davanti a me, ogni tanto prende il suo e digita qualcosa. Il babbo mi è di spalle. Né lei né lui parlano con il bimbo se non per dirgli di mangiare. Per tutta la serata la scena non cambia. Lo faccio notare a un amico con cui sto condividendo una pizza di fine giornata lavorativa, e lui subito m’invita a girarmi e a guardare dietro di me. Al tavolo stessa scena. Il bambino è un po’ più grande. Sei sette anni. Gli occhi incollati al cellulare. Sempre orizzontale, sempre davanti a lui, appoggiato a un cestino. Dev’essere quello del pane. Ma non posso star girato tanto tempo. Verifico dopo una ventina minuti: la scena continua. Stesso copione. Mangiano insieme, lui e il cellulare acceso.

Un’insegnante mi racconta i primi giorni di scuola con una prima elementare. Quali giochi vi piace fare, bambini? chiede. Con il telefonino, maestra. Come si fossero accordati: prima risposta all’unisono. Prima elementare, sei anni. Poi continua: che fatica attirare la loro attenzione, non riescono a seguire per più di due minuti. A tre non ci arrivano. Si distraggono. Si agitano. La testa, gli occhi girano. Spersi. Chi di voi ha il cellulare? Tutte le mani si alzano. Solo tre su ventiquattro rimangono basse. A me babbo me lo regala per Natale! s’affretta a dire uno dei tre.

Terzo anno di scuola superiore. Sedici, diciassette anni. Stessa storia: dieci minuti di attenzione. Sguardo altrove. Ritornano, se richiamati. Poi di nuovo fuori. Dove? Chi lo sa?

Luca, 8 anni, mi dice: babbo quando parla con me guarda sempre il cellulare. Sì, è vero, aggiunge la mamma. Anche davanti alla tv, la sera, lui con un occhio guarda la tele e con l’altro il telefonino. Sempre in mano. Come farà? si chiede. Faccio benissimo, le risponde, seguo tutto: ti pare che me ne posso stare imbambolato davanti a certi programmi? Ho bisogno di stimoli, io.

 

All’inizio di questo nuovo anno scolastico la stampa ci informava che alcuni dirigenti di scuola secondaria avevano disposto: gli studenti lasciano il cellulare all’inizio delle lezioni e lo riprendono a fine mattinata. Cinque ore di libertà. Libertà. Ma la maggioranza dei ragazzi fa fatica a cogliere quest’aspetto. Per loro i social sono la libertà. Di muoversi (incollati allo schermo, mente e corpo), di comunicare (chiusi nelle loro stanze), di poter dire tutto quello che vogliono (nascosti dietro una tastiera).

Reazioni comprensibili in un quindicenne, o un diciassettenne. Nativo digitale – così li abbiamo definiti –, ha appreso cos’è il mondo attraverso uno schermo. Con immagini e suoni che arrivano e fuggono con la velocità della luce. Ha imparato che con gli amici si parla attraverso TikTok. Si gioca incollati al pc. Nell’illusione che davanti ci sia un altro essere umano. Senza la consapevolezza che ci sono solo dei pixel. Che, insieme, ti danno un’immagine. Tutt’altro che reale.

Vittime, purtroppo, anche di una pandemia che li ha costretti a consolidare quest’apprendimento. Insegnanti e amici, prima in carne ed ossa, da toccare e annusare guardandosi negli occhi, diventati improvvisamente virtuali. Dad. Per ben due anni.

 

Ma il punto è che noi adulti non ci rendiamo conto dell’impoverimento che tutto questo provoca nei nostri ragazzi. Nei nostri bambini. Se già a pochi mesi di vita gli mettiamo davanti il cellulare con un giochino e ci rallegriamo, entusiasti, per la velocità con cui apprende a farlo funzionare, gli diciamo che quello è il mondo. Se mentre mangia i suoi occhi li lasciamo incollati allo schermo, mettiamo il suo cervello in un cortocircuito: quale messaggio deve ascoltare, il sapore del cibo o il luccichio che gli arriva dagli occhi?

E se poi vediamo che a sei anni non sa seguire una storia, pur semplice, che gli racconta la maestra; se a quindici non riesce a costruire un ragionamento che lo impegni per più di dieci minuti; ci meravigliamo che a far vincere le elezioni sono più gli slogan che i ragionamenti? Valutazioni, analisi, programmi... quando mai? Non arrivano.

Perfino trenta quarantenni faticano a tenere una conversazione senza il cellulare in mano. Vi farei partecipare a certi incontri nel mio studio. Marito e moglie, padre e madre. Ti parlano e ti ascoltano con il telefonino in mano. Magari resistono a non aprirlo, ma se li invito a poggiarlo sul tavolo: non si preoccupi, dottore, ci sono abituato a tenerlo così!

Un tempo la dissociazione era negli elenchi dei disturbi mentali. Che dite, sarà il caso di farci qualche domanda?

 

 

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