Afghanistan, Iran, Russia. Tre paesi, tre mondi che si richiamano a vicenda. Giovedì scorso l’ultimo attentato in una scuola di Kabul. Più di seicento studenti erano nell’aula, oltre trenta i morti. La maggior parte delle vittime sono ragazze. Sappiamo bene ormai quanto sia scottante in Afghanistan il tema dell’istruzione: sia i Taliban sia il Daesh, pur nemici giurati tra loro, entrambi autoproclamatisi custodi della tradizione religiosa autentica, si ritrovano in perfetto accordo nell’impedire alle ragazze l’accesso alla scuola. La donna deve stare a casa. La politica, l’economia, l’istruzione, il mondo, la storia sono cose-di-uomini. Ah, dimenticavo, la religione. Sì, perché questo è il filo conduttore, o se preferite, la coperta con cui il pensiero maschile protegge tutte le prepotenze, le angherie, le violenze che è capace di mettere in atto contro le donne.
Questi giorni è l’Iran a far parlare di sé. E di nuovo è il problema-donna tema di riferimento. Mahsa Amini, una ragazza di 22 anni, muore dopo essere stata arrestata dalla polizia perché non indossava correttamente il velo: i suoi capelli non erano completamente coperti. Arrestata perché i suoi capelli non erano completamente coperti. Dall’hijab, il velo islamico che gli ayatollah, custodi e interpreti autentici del volere di Allah, hanno deciso che le donne dai 9 anni in poi devono obbligatoriamente indossare fuori casa. Chiaro? Questo era il suo crimine. Perché questo sarebbe il volere di Dio – ma forse è meglio scrivere semplicemente dio, con la lettera minuscola. È dalla rivoluzione khomeinista infatti, 1979, che le donne devono indossare l’hijab, il velo che copre il capo. Il 13 settembre il Basij, la milizia che controlla l’osservanza delle regole morali decise dal regime, l’arresta e tre giorni dopo, arrivata in ospedale già in coma, muore. Il 23 anche Nilufar Hamedi, una delle prime giornaliste a rendere pubblica questa vicenda, viene presa dalla polizia.
In tutto il mondo ora ragazze e ragazzi sono uniti nella protesta. Già scoppiata per le strade di Teheran e in altre città iraniane. Donna, vita, libertà lo slogan che unisce donne e uomini del mondo libero nella solidarietà con le donne iraniane. Sottoposte al regime, maschile, degli ayatollah.
Altro fronte. Mosca. Putin decide di annettere i territori occupati dell’Ucraina e proclama la mobilitazione per i riservisti. Le perdite dell’armata rossa non sono più tollerabili per la grande Russia. Decine di migliaia di giovani maschi ora stanno scappando perché non condividono questa guerra. Non vogliono uccidere. Né morire. Due giorni fa Ivan Petunin, ben noto rapper di 27 anni, si lancia dal settimo piano a Krasnodar, nel Sud della Russia. Non voleva andare a uccidere altre persone. Nel suo messaggio dice: «Mi ha fatto tanto male ritrovarmi in questo mondo dove negli ultimi sette mesi domina la guerra. Non posso e non voglio far pesare sulla mia anima il peccato di omicidio. Non sono pronto a uccidere per qualunque ideale. Non ho il diritto di prendere in mano il fucile e sparare alle persone. Qualche volta, bisogna morire per i propri principi. Se state guardando questo video, significa che non ci sono più». E ora non c’è più. La forza di questo ragazzo è un raggio di luce di fronte all’ottusità di Kyrill, il patriarca che si è precipitato a garantire il paradiso (!) a tutti coloro che arruolandosi potrebbero anche morire.
Ma chi sostiene con più forza la protesta, stavolta contro la guerra – pardon, operazione militare speciale – sono ancora le donne. Madri, mogli, sorelle. Si ribellano. E la rivolta scoppia perfino nelle strade di Mosca. La loro forza e la loro determinazione oltrepassa di gran lunga ogni repressione. Sappiamo bene che non sarà cosa facile fermare una macchina che appare lanciata senza freni in una discesa spaventosa. Ma loro trovano il coraggio di dire basta con questa assurdità della guerra. Anche di fronte alle cariche della polizia.
Un filo comune, dicevo. La forza delle donne. La loro determinazione a difesa dei diritti più sacrosanti: il diritto alla vita e il diritto al riconoscimento che donne e uomini apparteniamo alla medesima umanità. Anche un altro filo comune, stavolta negativo però, possiamo cogliere in queste tre realtà. L’uso della religione. A difesa dei soprusi di un regime. In Afghanistan e in Iran l’Islam a tutela del privilegio e del potere maschile. In Russia il Vangelo di Kyrill, a sostegno della politica di Putin e dei suoi gerarchi, imprigionati in una guerra dalla quale è sempre più difficile intravvedere una via d’uscita. Il trono e l’altare. Accartocciati l’uno sull’altro.
Donna, vita, libertà. Sì, la speranza ancora una volta è donna.