Questo pezzo non fa parte de La mente e l'anima
ma è scritto in dialogo con la rubrica Appunti Pastorali
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Se pure quello che chiamiamo sinodo ha dei tempi di svolgimento, se cadiamo nell’equivoco di vederlo come un avvenimento con un inizio e una fine, ne tradiremmo lo spirito. È la costruzione della sinodalità che dà significato a quanto stiamo facendo, come chiesa-comunità, in Italia e nel resto del mondo. Sinodalità che significa capacità di camminare insieme (syn insieme e odòs cammino), consapevolezza che essere comunità, essere chiesa ha significato soltanto alla luce di questa costruzione.
Nelle due pagine precedenti, scritte su Voce qualche mese fa (Clericalismo, pandemia nella chiesa? e Clericalismo: farmaci e vaccini) cercavamo di cogliere come questa perversione – così la definisce Francesco – si insinui nelle pieghe di una tradizione che il tempo ha consolidato. Rendendole addirittura invisibili, tanto ad esse siamo assuefatti.[1]
Un altro aspetto oggi guardiamo.
Provate a chiedere al vostro parroco che cosa, nel suo lavoro, gli rimane più pesante e più ostico. Non vi dirà che lo stanca la celebrazione dell’Eucarestia, quotidiana o domenicale, l’omelia da preparare, l’incontro con i catechisti o con le famiglie che si preparano alla prima comunione o alla cresima, o con le coppie che stanno preparando il loro matrimonio. Non vi parlerà neppure delle visite ai malati o dell’amministrazione dei sacramenti. Non vi dirà che lo stanca curare la preghiera personale e guidare quella della comunità. O lo studio quotidiano, necessario per approfondire la conoscenza e l’attualizzazione della Bibbia. No, anzi. Vi dirà che in tutto questo lui trova senso e significato per la sua vita, per la scelta che ha fatto.
Ciò che l’appesantisce, e di cui vorrebbe tanto fare a meno, è dover curare la gestione amministrativa della parrocchia. Per quegli aspetti che la rendono tanto un’azienda. Lavori da fare, riscaldamento da curare, il tetto che ci piove, il campetto da tenere in ordine, locali che siano a norma, restauri, recuperi, registri, assicurazioni. Spese da gestire, entrate e uscite di cui rendicontare. Debiti da affrontare. Chiese, edifici, da tenere in buono stato. Affitti, comodati, contratti. In poche parole, tutto quanto richiede un’azienda. Che non gli appartiene, ma di cui è unico responsabile. Anche di fronte alla legge.
Ponete la stessa domanda al vescovo: vi darà la medesima risposta. Non è la guida spirituale che gli toglie il sonno. Sono le incombenze e le responsabilità amministrative. Ancora maggiori, per una diocesi, rispetto ad una parrocchia.
Agli inizi della storia della chiesa i Dodici – Giuda era stato sostituito con Mattia – si trovano in una situazione analoga. L’organizzazione della vita delle comunità richiede sempre più tempo e attenzione. Così, a un certo punto, si rendono conto che devono fare delle scelte. La cura dell’organizzazione rischia di far passare in secondo piano il compito che Gesù aveva loro affidato: portare il Vangelo a tutte le creature.[2] Che fare?
«Allora – scrive Luca nel suo secondo libro, gli Atti degli Apostoli – i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola”. Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero [sette uomini]. Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani».[3] Così a Gerusalemme, nella prima comunità di coloro che ad Antiochia saranno chiamati cristiani, nascono i diaconi. È una scelta che gli apostoli stessi propongono: differenziamo i compiti. E la comunità la fa propria. Ma... intorno al V secolo i diaconi sono già scomparsi: il clericalismo ha già iniziato la sua avanzata. Dovremo aspettare quindici secoli, con il Concilio Vaticano II, per ritrovarli.[4]
Oggi ci sono. Ma forse abbiamo ancora bisogno di ritrovarli. In Diocesi ne abbiamo. Salvo qualche incarico specifico, in buona parte rischiano di essere ridotti ad assistenti, del prete o del vescovo, nelle funzioni religiose. Eppure erano nati per assumere in prima persona i compiti di servizio pratico alle comunità (diakonìa significa servizio), liberando così gli apostoli da queste incombenze ed essere a pieno tempo ministri della Parola.
In molte delle nostre parrocchie c’è il diacono: restituiamogli la dignità delle origini. Una possibile modalità concreta: perché non affidiamo a lui la responsabilità legale e amministrativa della parrocchia-azienda? Il prete, libero da questo, può dedicare tempo ed energie «alla preghiera e al ministero della Parola». Guida spirituale della comunità. Ministro del Vangelo nel territorio che gli è affidato. Recuperiamo così anche una maggiore fedeltà alla missione affidata dal Maestro agli apostoli: i nostri vescovi e i presbiteri, loro primi collaboratori.
E un altro pezzetto di potere clericale verrebbe a sgretolarsi. Sinodalità è anche coraggio di oltrepassare tradizioni cronicizzate e ritrovare il Vangelo nella sua originalità.
Che ne dite?
(1. Clericalismo. Pandemia nella Chiesa?)
(2. Clericalismo. Farmaci e vaccini)
[1] Voce, 30 ago e 5 set 2021
[2] Mc 16,15
[3] Atti 6,1-6
[4] Lumen Gentium, 29