Settanta volte sette, chi non l’ha mai sentito? È da Gesù di Nazareth che un discepolo, Pietro, sente queste parole in risposta ad una sua domanda: “Quante volte se un mio fratello mi fa del male io devo perdonalo? Fino a sette?”, “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” risponde il Maestro.[1] Non è un numero aritmetico la risposta, ma l’indicazione del non limite al perdono verso cui deve tendere chi vuol vivere, uomo o donna, nella pienezza della sua umanità.
Settanta volte sette. Troviamo queste parole in una delle prime pagine della Bibbia, nel mito delle origini. Se pensiamo al valore culturale dei miti, fa impressione vedere come proprio agli albori della nostra storia abbiamo collocato vicende che parlano di morte e di violenza nei rapporti umani. La prima volta che entra la morte lo fa per mano di un fratello: Caino uccide Abele. La morte si fa conoscere come fratricidio. Poi nella discendenza di Caino incontriamo Lamech. «Lamech disse alle mogli: “Ada e Zilla, ascoltate la mia voce, mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte sette”».[2] Immersi nel mito siamo, non certo nella storia, almeno nei significati che noi oggi diamo a questa disciplina. Ma non dimentichiamo che i miti sono anche più significativi della storia. Dicono molto di più di quanto direbbe un racconto di fatti realmente accaduti. Essi dicono come l’umanità coglie se stessa. Su quali valori fonda le sue origini e la sua evoluzione. Entrare nei miti, ascoltarne le immagini ci permette di entrare nella nostra cultura, scoprire l’immagine che coltiviamo di noi stessi. Il fatto che non sono avvenimenti reali quelli che ci trasmettono, non solo non toglie valore a quanto dicono, ma portano una profondità di significati assai superiore a quelli d’una semplice pagina di storia.
Da Caino a Lamech possiamo cogliere come sia la violenza a definire le relazioni tra gli umani. Nella prima famiglia un fratello uccide il fratello. E l’eredità che questi trasmette ai suoi figli diventa vendetta. Che si moltiplica: non più sette volte, com’era per Caino, ma settanta volte sette. La violenza non ha fine. È coniugata all’infinito. Come all’infinito essa si presenta nella storia. Guerre, faide, divisioni. Civiltà che si arrogano il diritto di distruggerne altre. Popoli che aggrediscono altri popoli. Personaggi che passano alla storia perché condottieri di eserciti vincenti. O perdenti. Cesare o Pompeo, Annibale o Scipione, Tiberio o Tito, Alessandro o Dario, Attila o Alarico o Odoacre, Carlo o Napoleone. Di cosa ci parlano? Guerre, battaglie, vittorie, sconfitte. In altre parole, violenza morte distruzione.
Al IV secolo a.C. si fa risalire la stesura di questi racconti. Ma la loro origine è assai più antica, data la tradizione orale con cui i miti nascono e sono trasmessi. Poi, duemila anni fa, arriva un Maestro. Viene da uno sperduto villaggio della Galilea. Inizia la sua attività con dodici uomini e qualche donna. E già da qui dovevano capire che non era un maestro come gli altri: donne come discepole era quanto di più disdicevole ci potesse essere per un maestro serio. Le donne non potevano neppure andare a scuola o leggere i testi sacri. Ma non solo. A un certo punto pretende di stravolgere quanto nei secoli si era consolidato: la violenza come legge guida nelle relazioni umane e tra i popoli. E con quei pochi che lo seguono, che al momento della mala parata lo abbandoneranno pure, dice: non la vendetta settanta volte sette, ma settanta volte sette il perdono.
Ma si può accettare un pensiero simile? Due enciclopedie ho consultato; quattro dizionari, uno di psicologia, uno di religioni, due di filosofia; la raccolta delle opere di due grandi maestri, Freud e Jung: ebbene, in tutte queste migliaia e migliaia di pagine non c’è spazio per la parola perdono. Significativo, no? Il perdono non ci appartiene?
Eppure, è esperienza di tutti come conservare rancori, coltivare desideri e progetti di rivalsa o di vendetta logora la mente. Toglie il sonno. Avvelena l’anima. Abbiamo un grande bisogno di riscoprire la capacità di perdonare. Perché non è la legge di Lamech che è scritta nel DNA, ma il desiderio di pace. Pace interiore prima di tutto. Abbiamo solo bisogno di ascoltarci, di trovare quel silenzio che ci permette di leggere nel profondo di noi stessi, per ritrovare, lì, che essere fratelli non significa fratricidio, ma solidarietà. E non è nel frastuono o nella confusione che possiamo incontrare noi stessi, ma regalandoci momenti e spazi di silenzio e di ascolto.
Il Maestro di Nazareth, da grande conoscitore dell’animo umano, sapeva di cosa ha bisogno il nostro cuore. Non sette volte abbiamo bisogno di saper perdonare, ma settanta volte sette.
[1] Matteo 18,21-22
[2] Genesi 4,23-24