VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

2 apr 2023

La maggioranza affossa una proposta di legge

Bambini in carcere

Centomila sono in Italia i bambini che frequentano il carcere. Sono i figli dei detenuti, che fin da piccoli hanno a che fare con colloqui perquisizioni grate e porte blindate. Poi ci sono bambini che in carcere ci vivono e ci crescono. Reclusi anche loro. Sono pochi: ventisei, figli di ventitré madri, ospitate negli Istituti a custodia attenuata per le mamme (ICAM). Pochi, possiamo dire, ma fosse anche solo uno, un principio di civiltà non ci esime dal guardare in quali condizioni li facciamo vivere. Bambini costretti a nascere (possono essere recluse anche donne incinte) e trascorrere la prima infanzia, mesi o anni, in strutture carcerarie o para carcerarie senza che abbiano commesso alcun reato: loro sola colpa è essere figli di madri condannate a pene detentive.

Dicevo principio di civiltà. Meglio un colpevole in libertà che un innocente in galera, sosteneva anche Voltaire. In dubio pro reo era già scritto nel Digesto giustinianeo, un documento del VI secolo: nel dubbio giudica in favore dell’imputato possiamo tradurre. Un principio recepito anche dal nostro Codice penale: la tutela dell’innocente deve prevalere sull’interesse alla condanna del colpevole.

 

Principio di civiltà. Ma valido fino a... ieri. Così sembra. L’attuale maggioranza, infatti, proprio questi giorni ha affossato una proposta di legge che intendeva affrontare il problema dei bambini in carcere con le madri che si sono rese colpevoli di un qualche reato. La legge italiana prevede che una donna condannata può portare con sé il bambino, inizialmente (1975) fino a tre anni di età, facoltà poi estesa (2011) fino a sei, o a dieci in caso di condanna definitiva. Il tutto per evitare distacchi che sarebbero dannosi per la crescita di un figlio. Costretto, però, così a vivere anche lui dietro le sbarre.

Da conciliare sono due esigenze: da una parte la necessità di dare esecuzione alla pena, riparativa e rieducativa, per chi si è resa colpevole di reato nei confronti della società, dall’altra il bisogno di un bambino piccolo di poter vivere insieme con la mamma. La proposta di legge, che non aveva potuto completare il suo iter nella scorsa legislatura per la caduta del governo, prevedeva la costituzione di case-famiglia protette come istituto alternativo al carcere, per madre e bambino. Era in commissione giustizia della Camera, in attesa di andare poi in aula, e lì sono arrivati emendamenti, da parte della maggioranza, che si sono rivelati ancora più restrittivi delle disposizioni attuali. Il tutto per proteggere la società dalle donne borseggiatrici recidive che utilizzano i loro figli per sfuggire alla galera. Questa la motivazione dichiarata.

Sicurezza. Ordine-e-disciplina, diremmo. Se non fosse che a pagarne le spese sono ancora una volta i più deboli. I bambini.

 

Mi chiedo quale grave pericolo per il Paese possano costituire 23 donne – ventitré, non 23mila! – che, spregiudicate, userebbero i loro figli per sfuggire alla galera. Comprendo che da certi imbonitori della politica, che vanno a suonare ai citofoni di presunti criminali o gridano di rinchiuderli in cella e buttar via la chiave, non possiamo aspettarci attenzione verso chicchessia, pur innocente e semplice vittima di malefatte altrui, come questi bambini. Una cosa però me la chiedo: dove sia la nostra Presidente che rivendica, giustamente, di essere donna-madre-italiana-cristiana. Quale vicinanza da una donna a queste donne; quale solidarietà da una madre verso queste madri e i loro bambini; dove ha relegato, da italiana, quei princìpi di civiltà che abbiamo ereditato dal diritto romano; e in ultimo a quale cristianesimo fa riferimento quando a guidare le scelte legislative del suo governo sono solo pensieri di punizione e vendetta per i reati commessi, ignorando completamente la situazione personale di queste donne. E, prima ancora, dei loro figli.

 

Continuo ad illudermi, mi dicono, quando coltivo la speranza che almeno qualcuno degli attuali governanti possa esprimere valori di solidarietà. E la smettano, da massa indifferenziata, di vedere sempre il nemico in chi non è dei loro. Dev’essere deformazione professionale, immagino. Quella che mi spinge a cercare le risorse in una persona, piuttosto che lasciarmi condizionare dai limiti, anche quando questi emergono con tanta evidenza.

Ma è forse un sogno, un’utopia, lasciarsi guidare dal pensiero che la tutela della salute psicofisica dei bambini debba prevalere su ogni altra ragione o interesse pubblico, e debba costituire il principale, se non l’unico, criterio guida per la costruzione di misure dedicate a loro e alle loro madri, con cui hanno, a pieno titolo, bisogno e diritto di vivere?

 

“Ci è stato insegnato a rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto” ricordava Pericle agli ateniesi venticinque secoli fa.[1] Sono leggi dove umanità e solidarietà vengono molto prima di ordine-e-disciplina.

 

[1] Tucidide, La guerra del Peloponneso, 431 a.C.