Se la settimana scorsa non potevo partecipare al lutto nazionale in cui il nostro governo ci voleva costringere, oggi non posso fare a meno di entrarci nel lutto. Non nazionale, però. Mondiale. Universale. La morte da cui non so sottrarmi non parla di partiti o di parentele. Di prossimità o di lontananza. È la morte del senso di umanità che le vicende di questi giorni ci hanno messo davanti agli occhi. Fratelli tutti ricorda Francesco.[1] Ma il desiderio e l’auspicio di ritrovarci in queste parole sono stati sopraffatti dalla constatazione che siamo tuttora dentro quella norma, tremenda, con cui gli animali della Fattoria di Orwell sanciscono il fallimento della loro storia. Tutti gli animali sono uguali era scritto nel manifesto del movimento di liberazione dal dominio degli umani, per giungere però, tra lotte sfruttamento rivalità e prese di potere, alla soluzione finale. E quel primo comandamento diventa: Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.[2]
Ecco, siamo qui. Tutti gli uomini sono fratelli, ma alcuni sono più fratelli degli altri. È questa la verità con cui le cronache di questi giorni ci costringono a misurarci. Complice il mare. Fonte di vita e luogo di morte per tanta parte dell’umanità. Cinque uomini si immergono nelle acque dell’Atlantico nel tentativo di raggiungere il Titanic, affondato nell’aprile 1912. Ma il Titan, il piccolo sottomarino che li contiene, non regge alla pressione dell’oceano e i cinque vi trovano la morte. Più di seicento persone sono disperse nelle acque di Pylos, in Grecia, tra gli oltre settecento imbarcati nel peschereccio affondato due settimane fa. E non c’è giorno che non ci parli di barche che affondano. Pylos, Cutro, Lampedusa, Libia, Tunisia... tanti luoghi di morte nel cimitero del Mediterraneo.
Persone. I cinque del Titan e le migliaia ammassati nei barconi senza nome che ogni giorno attraversano il nostro mare. Uniti nella morte. “Per salvare cinque persone (ricche) a bordo del sottomarino disperso sono giustamente impiegate guardie costiere di quattro Stati, Nato e compagnie commerciali dotate dei mezzi più sofisticati. Sarebbe bastato molto meno per salvare 700 persone (povere) naufragate al largo della Grecia” scrive Sea Watch Italia su Instagram. Tre giorni di ricerche con navi aerei droni e altri avanzatissimi sistemi, sei milioni e mezzo di dollari, per salvare la vita di questi esploratori degli abissi. Giusto e sacrosanto impegno cercare di salvarli. Chi salva una vita salva il mondo intero dice il Talmud.[3] E il Corano: Chi abbia salvato un uomo, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità.[4] Ma è qui il punto di contraddizione, la dichiarazione di morte del nostro senso di umanità. Giorni di ricerca, con i mezzi più sofisticati, senza badare a spese da una parte; indifferenza, complicità perfino, quando ad essere in pericolo sono persone di cui non conosciamo neppure il nome. All’ennesima segnalazione di Alarm Phone su cinquanta persone a rischio di affondamento in acque internazionali, venerdì scorso le autorità libiche rispondono: “Ci dispiace, oggi è venerdì, per noi è festivo, non siamo operativi”. E il nostro governo, oltre a proibire un secondo o terzo salvataggio alle navi delle Ong, continua a spedirle a Ravenna Ancona o La Spezia.
Il respiro di Dio fecondava le acque dice, nelle primissime righe, il mito biblico delle origini.[5] Dov’è ora questo respiro di Vita? Se n’è andato il respiro di Dio o è il nostro, di piccoli e presunti dèi, che ne ha voluto prendere il posto? È proprio questo, del resto, il pensiero che il medesimo mito pone in bocca al nostro alter ego che non vuol riconoscere e accettare il limite che ci appartiene: se prendete nelle vostre mani il potere di definire il bene e il male, assicura, sarete come Dio.[6] Solo che, continuando nella simbologia del mito, la storia ci ha messi davanti a una piccola-grande differenza: il respiro di Dio feconda le acque, il nostro le avvelena. E le acque, fonte di vita, diventano luogo di morte.
È così che siamo giunti a investire ogni possibile risorsa per salvare chi è dei nostri. I cinque del Titan hanno un nome e un volto. E il mondo li cerca col fiato sospeso. I settecento a Pylos o i cento a Cutro o i cinquanta nelle acque internazionali... non sono dei nostri. Non hanno un nome per noi, non un volto: sono numeri. Per di più la loro presenza ci costringe a guardare all’enorme disparità di risorse, che continuiamo ad alimentare, tra noi e loro. Tra i nostri Paesi e le loro terre.
Tutti gli uomini sono fratelli, ma ci sono alcuni che sono più fratelli degli altri. E ci sono molti che sono meno fratelli degli altri. Onestà vorrebbe che riconosciamo, come hanno fatto gli animali della Fattoria, che questa oggi è la nostra verità. Allora potremo anche ritrovarci Fratelli tutti. E restituire alle acque il respiro della Vita.
[1] Francesco, Fratelli tutti, 2020
[2] G. Orwell, La fattoria degli animali, 1945
[3] Mishnah, Sanhedrin 4:5
[4] Corano 5,32
[5] Genesi 1,2
[6] Cfr. Genesi 3,1-7