Non devo forse odiare chi ti odia
detestare i tuoi avversari, Signore?
Li odio con odio implacabile
li ritengo miei propri nemici.[1]
Parole di una poesia-preghiera di oltre duemila anni fa. Parole di solidarietà e di vicinanza con il suo Dio sembrano, ma sono piene di violenza. Odio, avversari, nemici. Tutt’uno con aggressione, conflitto, guerra.
Questo sembra essere il clima che dà colore alle nostre relazioni. Soprattutto da un po’ di tempo a questa parte. Colpiti dalla pandemia, lottiamo con un nemico invisibile. Impegnati con tutte le armi a vincere questa battaglia. Tanti muoiono, uccisi dal virus... Era il nostro linguaggio dagli inizi del 2020. E ci ha accompagnati in questi tre anni. Fino a quando, quindici mesi fa, è arrivata alle porte di casa l’insensata aggressione della Federazione Russa all’Ucraina, come ripete il nostro Presidente. E la guerra, quella fatta con i missili e i carrarmati, è diventata una parola che non lascia giorno che non risuoni nella nostra mente. Che non faccia parte dei nostri pensieri. Dei nostri discorsi. E di nuovo armi, aggressione, battaglie, nemici.
Ricerchiamo la pace, ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Ma perfino nel parlare di pace attiviamo toni e parole che sanno di conflitto. Alziamo i toni, rispondiamo gridando, convinti che così ci ascoltano meglio. E non ci rendiamo conto che, invece, siamo dentro la medesima logica: non usiamo i carrarmati per sopraffare l’altro, ma le parole, i toni, lo sguardo, tutto il nostro corpo si agita per avere il sopravvento. Se l’altro ha un’opinione diversa, appena me ne accorgo gli parlo sopra. Non gli faccio neppure finire il suo pensiero. Chi non la pensa come me diventa un avversario. E l’avversario va fatto tacere. Discussioni in tv, marce per la pace, staffette per la pace, manifestazioni per la pace sono spesso accompagnate da slogan urlati. E tutto diventa conflitto. Pur sapendo molto bene che se chi ha un’opinione diversa dalla mia può arricchire l’incontro perché mi fa cogliere aspetti che sfuggono al mio sguardo, nel momento in cui questa diventa conflitto, entriamo in un circolo vizioso dal quale non sappiamo uscire.
Perfino in famiglia le parole e i toni si alzano con più facilità. La parola sbagliata diventa offesa. E l’offesa minaccia. Se prima una battuta parlava di vicinanza di affetto di amore perfino, adesso uno sguardo il silenzio o la parola, tutto alimenta la tensione. E la tensione diventa conflitto. La parola che esce al momento sbagliato viene scritta nella memoria e sarà riesumata al momento opportuno per riversare sull’altro la mia frustrazione. La mia rabbia. Poi ce la prendiamo con i bambini, i ragazzi. Che sono agitati, confusi, distratti. Non vogliono mai andare a letto, si svegliano la notte, sempre incollati ai telefonini, non si sa cosa vogliono. Ma non respirano anch’essi la stessa aria che respiriamo noi adulti? E sono loro che hanno bisogno di recuperare serenità. Da noi. Non possiamo chiedere a loro di darcene: dove vanno a prenderla se una parola sbagliata della mamma diventa per il babbo occasione per alzare i toni e tradurla in offesa? In ogni famiglia ci sono momenti di tensione. Certo. Il punto è cosa ne facciamo. Quanto, questi momenti, andiamo a scriverli nel libro rosso dei conti aperti.
Facciamo attenzione. Spesso ragioniamo per compartimenti stagno: la guerra è una cosa la pandemia un’altra, la famiglia una cosa il posto di lavoro un’altra, la scuola un’altra ancora. Così per la politica e le relazioni sociali. Sì, certo. Sono cose diverse, ma tutte contribuiscono al clima di violenza che respiriamo. È la guerra in Ucraina che alimenta la conflittualità o è questa modalità di vivere le relazioni che alimenta la guerra?
Guardiamo quante famiglie si rompono perché una parola uno sguardo un silenzio un tono un po’ più alto si mettono sullo stomaco. Diventano indigeribili. Possiamo domandarci perché dopo quindici mesi di missili e carrarmati, di morti e di devastazione non siamo ancora capaci di attivare quel processo di mediazione che solo può portare al silenzio delle armi e al rispetto della vita. Perfino i profughi, costretti a scappare dalla loro terra, diventano potenziali nemici. La politica è impotente? Ma la politica è fatta di donne e uomini che respirano la stessa aria di violenza che, anche inconsapevoli, continuiamo ad alimentare.
Avevo iniziato con una preghiera di oltre venti secoli fa. Cinquecento anni prima, un’altra invocazione. Di pace stavolta.
Tu, Signore, tu sei nostro padre
Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore?[2]
Che la parola Signore sia rivolta a un Padre-e-Madre del mondo o alla Vita che lo sottende, non cambia. Esprime un nostro bisogno radicale: riscoprire che est e ovest, nord e sud, etnie e culture apparteniamo tutti all’unica famiglia umana.
[1] Salmo 139,21-22
[2] Isaia 63,16-17
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