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Ricordate il sogno di Nabucodonosor? Una statua con la testa d’oro puro, il tronco e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro in parte d’argilla. Una pietra si stacca dal monte va a sbattere contro questi piedi: e tutto si frantuma. Con questo sogno abbiamo dato uno sguardo all’intelligenza artificiale (IA). E subito abbiamo colto un aspetto su questi piedi di ferro e d’argilla. I costi. Per il pianeta e per l’uomo. Oggi proviamo a guardarne un altro. Che questa volta, però, abita la nostra mente: rischiamo di dimenticare che l’intelligenza artificiale è una macchina. Niente di male che lo sia, né d’ignobile. Semplicemente abbiamo bisogno di ricordarlo. Soprattutto quando il fascino che ci colpisce, considerando le sue enormi capacità e potenzialità, rischia di farcelo dimenticare, al punto d’arrivare a guardarla quasi uno di noi.
L’IA sa comporre un testo, sa fare un discorso, dipingere un quadro, scrivere un brano musicale, rispondere in una conversazione che allacciamo con lei… e lo farà sempre meglio. Ma di tutto questo non capisce niente (e la chiamiamo intelligenza!). Può scrivere meglio di me, dipingere alla Picasso o fare musica alla Beethoven, ma che scriva una pagina o dipinga o faccia musica, per lei è la stessa cosa. Non solo. È del tutto indifferente. Non si emoziona se legge una poesia o guarda un Caravaggio, o ascolta Verdi che canta con gli ebrei in esilio a Babilonia. Può far parlare un signore con il mio volto, il mio tono di voce, il mio stile. Così bene che chiunque ascolti è convinto che sia io a parlare. Ma per lei è la stessa cosa che mostrarmi un bel panorama o risolvere un problema di matematica. Può farmi dire cose affascinanti o le più terribili: a lei non fa differenza. Non si commuove se scrive una lettera d’amore. Non sente niente se parliamo del mio amore per mio figlio. Anche se sa stare nel discorso o, addirittura, usare parole anche più belle ed emozionanti delle mie.
Ciò che io faccio nasce dal cuore. È espressione delle mie emozioni e di un sentimento che mi abita. Amore, rabbia, affetto, odio, delusione, gioia, tristezza, dolore, speranza. Ciò che lei fa è una semplice combinazione di parole o gesti o segni che attinge in un deposito di memoria immensa, infinita quasi. Tutto lo scibile in rete è a sua disposizione: eventuali limiti le sono imposti solo da qualche disposizione di legge. Che noi decidiamo.
L’IA è un meccanismo, io sono un organismo. Lei è una macchina, io un vivente. Lei agisce assemblando informazioni, io vivendo emozioni. Buone o cattive che siano. Verso il bene o verso il male. Per lei sganciare una bomba su una città o portare acqua in un campo di profughi sono la stessa cosa. Non così per me. Homo sapiens sa cosa fa, cosa decide, quali obiettivi vuole raggiungere.
Esistere per me ha senso, ha significato. Mi ci vorrà tutta la vita per scoprirlo ed esserne consapevole. Chi dà senso e significato a una macchina? Immaginate un supercomputer senza l’uomo. Non solo non esisterebbe. Non avrebbe senso. A chi, a cosa servirebbe? Potrebbe vivere da solo, moltiplicarsi, conquistare la terra, lo spazio? Il web, la cosiddetta IA, senza umanità non esisterebbero. Homo sapiens senza IA è vissuto 5milioni di anni. Lei, senza di noi non ci sarebbe. Noi siamo sorgente di significato. Una macchina fa quello che le diciamo noi. E nel momento in cui noi la mettiamo lì, lì rimane. Un computer spento è spento. E quando è spento, a lui non interessa niente: non soffre, non riposa, non accumula informazioni, non sogna, non visita le profondità dell’anima. Riprenderà a funzionare quando lo decido io.
L’altro aspetto, che non possiamo dimenticare: una macchina è una macchina, e resterà tale. Sarà capace di eseguire miliardi di operazioni, molto meglio di me, o di tutti noi messi insieme. Ma mai potrà diventare un essere vivente. Già tremila anni fa l’umanità l’aveva compreso. Nel mito biblico delle origini neppure Elohìm, il dio creatore, è in grado di trasformare una macchina (lì si tratta di un pupazzo costruito con la terra) in un essere vivente. Deve infondergli il Suo spirito vitale: Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita: e l’uomo divenne un essere vivente.[1] È questo che non possiamo dimenticare. Anche la macchina più efficiente resterà sempre una macchina. Né io potrò mai infondere in lei il mio alito di vita.
Dove ci portano questi pensieri? A ricordare che una macchina, anche la più potente, non è, e non sarà mai, né dio né diavolo. Qualunque cosa lei possa e potrà fare dipende sempre dall’uomo. Lei, semplicemente, amplifica le nostre capacità. Ma la direzione, per costruire o distruggere, a difesa della vita o contro di essa, siamo noi a dargliela. Qualunque cosa lei faccia, nostra è la responsabilità. Piena e totale. Perché lei non sa cosa fa. Noi sappiamo cosa facciamo.
(1. La testa d'oro e i piedi d'argilla)
[1] Genesi 2,7