Sì, Jesi. Ma potrei dire Ancona o Pesaro o Perugia. Come pure Roma, Milano. È luglio. Afa e sole. 35 gradi. Lei cammina. Abito largo e lungo, fino alle scarpe. Un velo le ricopre completamente testa fronte collo – neppure la polizia morale di Kabul avrebbe qualcosa da ridire. Marrone è la tonalità dominante. Il velo sulla testa è appena più chiaro. Solo gli occhi respirano. Nera la maschera che copre il resto del volto. Accanto c’è lui, pantaloni leggeri e maglietta a maniche corte. Tiene un passeggino. Dentro, un bimbo di pochi mesi. Dorme. Cinque passi dietro, una ragazzina. Non più di dodici o tredici anni, a vedere da come cammina. È l’unica cosa che riesco ad osservare. Anche di lei, infatti, solo gli occhi vedono la luce. Coperta, anche lei, dai piedi alla testa. Un po’ più chiara la tonalità dei suoi vestiti. Due giorni fa, Ancona, insieme con una donna, una bambina: non più di sei anni, testa fronte e collo completamente fasciati da un velo grigio. Come loro, tante altre.
Non mi piace tutto questo. Non lo comprendo. Meno ancora lo condivido. Mi piacerebbe che quest’uomo in maniche corte, o qualcuno dei suoi amici, mi spiegasse perché la sua donna deve andare così conciata. Non indossa il burqa, ma l’effetto è lo stesso. Mi scriva se vuole, mi chiami, scriva alla redazione di Voce. Fin da adesso però, lo anticipo: non mi tiri fuori un Dio. Allah o con qualunque altro nome lo chiami. Per un credente Dio è sorgente di Vita. Può forse riconoscere alla donna una dignità tanto diversa da quella che riconosce agli uomini? Può essere Lui a volere tanta discriminazione? Nessun Dio può esistere che sostenga tanta disparità. Che è violenza. Sarebbe un dio di parte. Maschio. E maschilista. Ma un dio così sarebbe solo da rinchiudere. E buttare la chiave.
La medesima richiesta che faccio agli uomini la rivolgo alle donne che vestono qui come fossero a Kabul. Vorrei che mi parlassero e mi dicessero… il piacere e il senso di realizzazione di sé che provano con questo tipo d’abbigliamento. Vorrei sapere da loro. Donne e uomini. Sentire direttamente il loro pensiero, le loro convinzioni. Le loro sensazioni. Perché il mio dubbio, in onestà dovrei dire certezza, è che costringere la donna a vestire così è pura espressione d’un pensiero maschilista che vede l’uomo padrone della donna. E lei proprietà dell’uomo. Ne è così proprietario che perfino l’immagine gli appartiene: nessun altro può vederla. Non il viso o un braccio o una caviglia. Lei è sua. Ed è già tanto se la fa uscire di casa, perché qualunque sguardo di qualunque altro maschio potrebbe rubargli ciò che gli appartiene. Sì, gli appartiene. Lui può guardare altre donne: lui è un maschio. Altri possono guardare altre donne. Ma non la sua.
Dicevo che mi rifiuto di accettare giustificazioni che dovessero venire in nome di Dio. Perché è troppo facile nascondersi dietro una divinità e usarla come scudo per non mettere a confronto il proprio pensiero con pensieri diversi. La psicologia dice che è un pensiero debole quello che non può dialogare con un pensiero altro. E quando si sente minacciato diventa rigido. E per un pensiero rigido qualunque diversità è pericolosa. Perché potenzialmente frantumante.
Non in nome di Dio, dicevo. Possiamo parlarne se una scelta è fatta in nome di una religione. Sapendo bene che la religione è una costruzione degli uomini. Fatta di regole, dottrine, leggi, tradizioni, usanze che nel corso dei secoli si sono formate, codificate, consolidate. Su stereotipi culturali, che guidano pensiero e scelte operative. Non sono emanazione di un qualche intervento divino. Scritto, orale o in qualunque altra forma lo si voglia vedere. Ogni Dio lo vuole è una trappola. Che chiude. E la chiusura cui porta è duplice: con me stesso, in quanto mi mette nell’impossibilità di riflettere e ragionare con la mia mente sulle scelte, mie e della comunità cui appartengo; con gli altri, perché mi chiude ad ogni possibilità di confronto con un pensiero diverso. Se Dio lo vuole, come posso attivare un pensiero critico, farmi domande, accettare di mettere in discussione un modo di vivere e di relazionarci… se è Lui a volerlo? Se invece è la religione-cultura che lo impone, allora posso anche confrontarmi con un pensiero diverso, con una tradizione diversa. E restituire respiro ad un pensiero libero. Che è ricerca e cammino verso la verità.
Quando il Grande Inquisitore mette sotto processo Gesù, la colpa per cui merita il rogo è proprio questa: “Anziché impossessarti della libertà degli uomini, tu l’hai accresciuta ancora di più” gli dice.[1] La libertà. È ciò che temono di più le religioni. Ogni religione. Per esorcizzarla, nel Quattrocento usavano il rogo, ai tempi di Gesù la croce. Ma la libertà di pensiero è Vita per ogni essere umano. Donna e uomo. Credente o no.
[1] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, 1880