15 set 2024
Di fronte a temi complessi è più facile scappare che guardarli
La miglior difesa è… la fuga
Vi sarà capitato di sentirvi dire ma questo è un problema enorme, non si può esaurire in due battute. Salvo poi accorgervi che di questo non se ne può parlare mai: o non c’è il tempo necessario, o non abbiamo tutti gli strumenti e le conoscenze che il problema richiederebbe, o non siamo mai tutti quindi parlarne in pochi non servirebbe a niente, o mille altre ragioni. Così il problema enorme non si affronta mai. Fame nel mondo, cambiamenti climatici, flussi migratori; invasione dell’Ucraina, questione israelo-palestinese, fascismi striscianti che riemergono, anziani trascurati o abbandonati, scuola in crisi perenne, classe politica…; terrorismo, razzismo, fondamentalismi religiosi. Nessuno, certo, può presumere di avere la soluzione anche ad uno solo di questi problemi: giusto e saggio e necessario è riconoscerne la complessità. Ma consapevoli anche che questo riconoscimento ci pone poi davanti a un bivio: ri-chiudere tutto, data l’ampiezza del problema; oppure cominciare a porre un primo mattoncino, poi un secondo… Vigili, data la complessità della cosa, ma anche consci che non si può scappare sempre.
Lo so, ci vuole forza e coraggio per metterci al tavolo, informarci, cercare di capirci qualcosa, disposti ad ascoltare anche pensieri e opinioni diversi o perfino contrastanti. Ricordava Platone: serietà vuole che delle cose serie non si scriva, per non esporle all’invidia e all’incomprensione degli uomini.[1] Non è il fissare sulla carta che conta, quanto piuttosto guardare e riconoscere ciò che abita la nostra anima, la nostra mente (psyché). Che, quindi, guida il pensiero e le scelte. Il rischio, a mio parere, è che il suo non si scriva lo facciamo diventare tanto facilmente non si parli. Non se ne parli.
Non era ancora tema d’attualità ai suoi tempi, pur balenando qua e là, ma oggi la questione donna è tematica aperta. Questione di fronte alla quale non è più consentito scappare. Sul piano sociale, politico, culturale. Nelle relazioni pubbliche e in quelle private. I compiti di cura, il doppio triplo lavoro che si ritrova sulle spalle, il conflitto che le si presenta tra scelta professionale e famiglia… Tra tutto questo, e tanto altro, una cosa in particolare colpisce: l’utilizzo della religione. Da via di luce e di libertà, quale dovrebbe essere dal momento che è verso uno sguardo più ampio che una religione dovrebbe guidare, è ridotta a strumento di emarginazione. O addirittura di oppressione. Colpisce come in tutte le culture, pur con le dovute differenze, è l’uomo (maschio) ad essersene appropriato. Non c’è religione, tra le più conosciute e diffuse, che non sia a guida maschile. Prevalente o addirittura esclusiva.
È di questi giorni la notizia dell’ultimo atto di violenza dei taliban sulle donne afghane. Son già tre anni che le ragazze non possono andare a scuola. E ora, il 22 agosto, Hibatullah Akhundzada, guida suprema, promulga una nuova legge. Vigile il Ministero della propagazione della virtù e della prevenzione del vizio. «Le donne devono coprire completamente il corpo in presenza di uomini che non appartengono alla loro famiglia», così come il viso. «Per evitare tentazioni». Lo stesso vale «se le donne devono uscire di casa per necessità». E possono uscire solo se accompagnate dal loro mahram, un maschio della famiglia. Proprietà del padre o del fratello o del marito, non devono far sentire la loro voce in pubblico. Vietato cantare, vietato recitare, vietato parlare con toni alti. Anche in casa. Vietato perfino cantare la ninna nanna a un neonato durante la passeggiata. Vietato ridere con le amiche al mercato, vietato pronunciare parole d’amore a un fidanzato all’aperto, vietato protestare per un sopruso. Era già stata tolta loro la parola. Ora anche la voce.
Due domande.
La prima. Dov’è la nostra voce, di noi paesi liberi, di fronte alla violenza di cui la donna afghana è sempre più vittima. La protesta, che a rischio perfino della vita una parte di loro cerca di tenere in piedi, ha bisogno di non vedersi relegata dentro i confini del paese. Le donne afghane hanno bisogno della nostra voce. Hanno bisogno che il mondo non si giri dall’altra parte.
L’altra. Non vorrei che di fronte ad aberrazioni del genere mettiamo da parte la domanda, sottovalutandone la portata, su come e quanto, nel nostro mondo religioso, la donna sia tuttora subalterna ed emarginata. Mi ha colpito la reazione di alcuni amici con cui ho provato a condividere questa domanda. Adesso non esageriamo con questi paragoni, mi hanno detto, in un mondo già lacerato del suo, non ci mettiamo pure noi. Comprendo che la domanda possa disturbare la nostra quiete. Ma queste parole mi sanno tanto di scappatoia: di fronte alle assurdità dei taliban afghani cosa vuoi che sia l’emarginazione della donna nella nostra religione… Ottima considerazione per lasciare tutto come sta. O no?
[1] Platone, Lettera VII
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