6 ott 2024
Intelligenza artificiale: non solo benefici, anche costi
La testa d’oro e i piedi d’argilla
(1)
VI sec. a.C., a Babilonia è re Nabucodonosor. Una notte fa un sogno che gli toglie la pace. Vede una grande statua. Con la testa d’oro puro, il tronco e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro in parte d’argilla. A un certo punto una pietra si stacca dal monte e va a sbattere contro i piedi della statua. Questi si frantumano, e si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro.[1] I suoi saggi non sanno che dire. Finché Daniele, un ebreo deportato da Gerusalemme, gli dà una lettura che al re aprirà gli occhi.
Lasciamo ora Nabucodonosor e prendiamo il sogno. È la testa d’oro che, mi sembra, noi vediamo oggi quando guardiamo l’ultima conquista della tecnologia. Le abbiamo dato perfino un nome grande, nobile. Intelligenza l’abbiamo chiamata. Pur con un aggettivo che non saprei bene se chi gliel’ha messo vicino voleva esaltarne il livello o piuttosto evidenziarne il limite, artificiale (gli addetti ai lavori parlano più semplicemente di machine learning, apprendimento automatico). Così l’intelligenza artificiale (IA) è diventata l’orgoglio della nostra creatività, e oggi sta catturando tanta della nostra attenzione. La domanda che io mi faccio è se riusciamo a guardare anche i piedi della statua, così fragili che basta una pietra per far crollare tutto. Aspetti diversi ci sono in quei piedi di ferro e d’argilla. Oggi proviamo a guardarne uno. I costi. Per gli umani e per il pianeta.
Una cosa che non ci dicono quanti parlano di IA è che essa, al fondo, è un’industria estrattiva. I suoi primi costruttori non sono gli ingegneri che la programmano, ma gli uomini che lavorano nelle miniere delle terre rare indispensabili alla sua realizzazione. Lei fonda la sua esistenza nello sfruttamento di risorse, energetiche e minerarie, del pianeta. Con manodopera a basso costo, compresi bambini. Come sempre avviene con chi lavora nell’estrazione di materiali. Dall’oro nell’Ottocento, al litio nel secolo nostro. Industria spesso accompagnata da conflitti, tensioni geopolitiche e guerre.
L’IA richiede la disponibilità di terre e minerali rari e non rinnovabili. Parecchi sono, infatti, in questa categoria, quelli necessari alla sua costruzione e al suo funzionamento.
Guardiamo, un momento, il pianeta e noi. Per formare questi elementi ci son voluti miliardi di anni e noi ora li estraiamo per costruire dispositivi tecnologici (smartphone, tablet, computer) la cui durata è di appena qualche anno. Un soffio rispetto ai tempi della geologia. Non più di 4-5 anni è la vita media di queste macchine. I costruttori stessi le progettano nella logica dell’obsolescenza programmata: dopo pochi anni smettono di funzionare e vanno gettate. E diventa necessario costruirne di nuove. Quando portiamo un qualsiasi apparecchio ad aggiustare, un computer o anche una semplice lavatrice o un frigorifero, non ci dicono che costa meno comprarne uno nuovo che aggiustare il vecchio? E il riciclo dell’usato è ancora un mezzo sogno.
Quando parliamo di web (ragnatela) o cloud (nuvola) molto facilmente dimentichiamo che tutto questo può funzionare perché sotto gli oceani cammina una rete di cavi che li attraversano e collegano le diverse aree del pianeta. E questi sono costruiti con sostanze che prendiamo dalla natura. Il materiale d’isolamento, per proteggerli nelle difficili e variabili condizioni dei fondi oceanici, è formato con il lattice ricavato dagli alberi. E se anche nuvola o ragnatela suonano come parole semplici e leggere, in realtà esse sono il risultato di macchine enormi (server) collocate in diverse parti del mondo e che, per funzionare, richiedono un consumo d’energia continuo e massiccio. Energia da fonti fossili come gas naturale e petrolio. Ciò significa che tutto quanto ci dicono circa l’IA come strumento per la risoluzione dei problemi legati all’inquinamento ambientale e ai cambiamenti climatici, è di là da venire. Con buona pace dell’intero ecosistema.
Vuoi dire, allora, che questa tecnologia è da buttare? No, certo. Voglio dire che accanto alla preoccupazione – giusta, necessaria, indispensabile! – circa l’uso che l’uomo può e potrà farne, non possiamo dimenticare il costo che essa richiede, e al pianeta e all’umanità. Noi siamo parte di un ecosistema che ha impiegato 5miliardi di anni per formarsi. E il nostro sguardo ne coglie appena qualche decina, tale è il tempo di cui facciamo esperienza. Rischiamo, così, di dimenticare che non la terra appartiene a noi, ma noi alla terra. E ogni volta che la impoveriamo, impoveriamo noi stessi.
Ci chiediamo mai chi sarà a pagare lo sfruttamento fuori controllo che stiamo facendo di tante sue risorse? Un vecchio detto indiano ricorda: la terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli. Come la restituiamo?
[1] Dalla Bibbia, Daniele 2
(2. I piedi d'argilla)
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