VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

17 nov 2024

Rinunciare alla nostra originalità significa non vivere

Ripeté il gatto…

Sì, il gatto. Ma quest’immagine non l’ameranno i nostri amici. Sornioni. E aristocratici. Pronti a lisciarci se hanno bisogno di qualcosa, attenti a farcela non appena ci distraiamo. Capaci di riscaldarci la pancia se ci stendiamo sul divano, e cullarci con una melodia ipnotizzante. Affettuosi, ma con misura. Pronti a dire il loro disaccordo non appena osiamo pensare di esserne i padroni: saltano giù e ti piantano lì. Sono un inno alla libertà. Loro non si vendono come l’amico e rivale. E non disdegnano di guardarlo dall’alto in basso, il cane. Ai loro occhi, servo del padrone.

Non è di loro, infatti, che parlo. Né del famoso gatto di Schrödinger. Ma di quell’altro, passato alla storia perché cieco, si lasciava guidare dalla volpe che, zoppa, camminava appoggiandosi a lui. Società in perfetta armonia. Così perfetta che a lui, come in ogni società dal pensiero unico, non restava che ripetere l’ultima parola della compagna. «“Allora vai pure, e tanto peggio per te.” “Tanto peggio per te!” ripeté il Gatto. “Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.” “Alla fortuna!” ripeté il Gatto. “I tuoi cinque zecchini dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.” “Duemila!” ripeté il Gatto…».[1] Ripeté il gatto, ripeté il gatto. Sappiamo poi com’è andata a finire per il povero Pinocchio. È a questa pagina ch’è andata la mia memoria di fronte a tanta assuefazione ad una maggioranza, e a così poca autonomia e originalità di pensiero, oggi. Negli ambiti più vari.

 

Immagino capiti anche a voi di sentire donne o uomini della politica che in quei pochi secondi di notorietà concessi loro da un tg, ripetono pedissequamente quanto già dichiarato dal capo, segretario o segretaria del partito. Come quelle domandine che da bambini ci facevano imparare a memoria: anche se non ne capivi il senso, importante era che le ripetessi con esattezza. E non è cosa da poco. Perché se nel mondo della politica, in una democrazia, l’originalità di pensiero è concessa solo al capo, e tutti gli altri sono relegati al ruolo di gregari, con il compito di ripetere il mantra assegnato, c’è poco da essere allegri. Capisco i portavoce di Putin o di Khamenei, di Xi o di Kim Jong-un, e fra poco, chi sa, anche quelli di Trump: lì per definizione il pensiero dev’essere unico. Puoi provarci a vedere le cose diversamente dal capo: non porta bene. Ma che in una democrazia ai rappresentanti del popolo, da questo eletti in parlamento, sia relegato il compito di ripetere sempre e soltanto il pensiero di chi è al vertice… povera democrazia.

 

E nella scuola? Sentire insegnanti che lamentano disfunzioni nel loro istituto e subito, in risposta a qualche obiezione, s’affrettano a dichiarare che non vedono altra strada che piegarsi ad ogni indicazione o decisione del/della dirigente… non è consolante. A loro consegniamo i nostri figli, da bambini e fin oltre l’adolescenza. Cosa insegneranno? Quali valori saranno in grado di proporre? Se vuoi sopravvivere, impara bene che tuo compito è ripetere, ripetere, ripetere l’ultima parola di chi governa? Cittadini in-consapevoli e passivi. Pronti a bere l’ultima pozione che il pifferaio di turno somministra. E subito pronti a ripetere. Come il gatto cieco che si lasciava guidare dalla volpe. Basta l’ultima parola: autonomia differenziata, differenziata! prima gli italiani, italiani! elezione diretta del Presidente del Consiglio, consiglio! chiusura delle frontiere, frontiere!

 

Bullismo ci sentiamo ripetere questi giorni. Tre ragazzine aggrediscono una compagna che va a scuola senza indossare il velo. Quattro studenti sfottono e picchiano un alunno disabile. A una festa di compleanno, 6 anni, un bambino viene preso in giro dagli amichetti che si mettono a giocare tra loro, e lui lo lasciano lì, solo e intristito. Bullismo. A tutte le età. Come se un qualche virus scrivesse nei nostri cervelli: tu non devi pensare, basta uno che lo faccia per tutti. E anche qui il primo-bullo pensa per tutti. Lui decide, gli altri eseguono. A onor del vero c’è da dire che, in realtà, non pensa neppure lui. È così vuoto il suo pensiero, tanto friabile l’immagine che ha di sé, che per sentire d’esistere ha bisogno di trovare qualcuno da annullare. Da mettere sotto. Lui non ha valore, sul mercato delle relazioni nessuno lo prenderebbe. E non si rende conto, non si rendono conto, che alla loro vittima, pur in giovanissima età, non rimane via d’uscita. Fino a chiudere con la vita.

 

Questo è il dramma. Né il gatto né la volpe sono autonomi. Lui, cieco, non ci vede; lei, zoppa, non può muoversi. Eternamente interdipendenti. E per la loro sopravvivenza devono incontrare un burattino di legno che cada nel loro gioco.

Come uscirne? In ogni situazione, di fronte a quanto vediamo o sentiamo intorno a noi, proviamo a tenere aperta una domanda: qual è il mio punto di vista? Dov’è il mio pensiero?

 

[1] C. Collodi, Pinocchio