Se analizzassimo il DNA dei Filippo Alessandro Pietro Marino, o di tutti quegli uomini che uccidono la loro compagna, o di quei ragazzi che, soli o in branco, aggrediscono o violentano una ragazza, sicuramente troveremmo qualche gene che ne riveli l’impurità delle origini. Discendenti degli Unni o dei Visigoti, o anche, perché no? con qualche radice africana, visti i 26mila soldati di Annibale che nel 216 a.C. attraversarono l’Italia. Per non dire dell’invasione dei profughi da Troia, giunti secoli prima con Enea e il vecchio Anchise. Migranti…
Lo so, c’è poco da ridere, visto il dramma dei femminicidi e degli stupri che la donna si vede costretta a subire ancora oggi. Ma non è tollerabile che donne e uomini di governo continuino a giocare al capro espiatorio. “C’è un’incidenza maggiore nei casi di violenza sessuale da parte di persone immigrate, soprattutto illegalmente, perché quando non hai niente si produce una degenerazione» dice la Presidente del Consiglio. Preoccupata, forse, che il suo vice la possa oltrepassare quando mette un elenco di donne vittime di non italiani, per evidenziare “le pericolose conseguenze di un’immigrazione incontrollata, proveniente da Paesi che non condividono i valori occidentali”, e solo qualche giorno prima s’era premurato di dire “e se qualcuno stupra, chi paga?”. Prigionieri d’un pensiero ossessivo: tutto il male viene dai migranti.
E dire che tra gli accusati di stupro abbiamo visto perfino figli di illustri politici, tuttora in attesa di giudizio. Bravi ragazzi, naturalmente. E di pura razza italiana, avrebbero detto nel ’38. Ma ancora più grave, a mio parere, quando aggiunge “c’è un lavoro qui che è soprattutto securitario, la dimensione culturale c’entra di meno”. No, cara presidente. Che ci sia un lavoro riguardo alla sicurezza, d’accordo – e qui dovremmo rivedere certe leggi che rendono sempre più complicato ai migranti regolarizzare la propria situazione. Ma quando dice che la dimensione culturale c’entra di meno, questo no. È proprio qui, invece, che abbiamo bisogno di guardare.
Nella nostra cultura che continua ad alimentare l’immagine dell’uomo cacciatore e della donna preda. Pensiero vecchio? Certo. Ma pensiero tuttora vivo. E non solo tra gli ottanta novantenni, ma nei giovani, dodici quindicenni. Pensiero islamico, come sostiene qualche politico della sua maggioranza? Sì, pure. Ma anche pensiero profondamente italiano se per abrogare il delitto d’onore siam dovuti arrivare al 1981, appena quarant’anni fa. E abbiamo dovuto aspettare il ’75, con il nuovo diritto di famiglia, per vedere riconosciuta alla donna una condizione di completa parità con il coniuge, fino ad allora unico capo-famiglia. E non basta neppure “garantire che quando qualcuno commette un reato paghi per quel reato”, cara presidente. Né basta l’aumento delle pene come piace tanto a codesta maggioranza.
Dobbiamo invece cominciare a chiederci come affrontare il problema della violenza sulle donne alla radice. Perché le radici sono nella nostra cultura. Nel modello di relazione uomo donna che viviamo. In famiglia, prima di tutto. E nelle istituzioni. Non ultima la scuola. Proviamo a chiederci che modelli passiamo ai nostri figli, fin da bambini. Chiediamo a un bambino le stesse cose che chiediamo alla sorella per la cura della casa? Quando iniziano a voler uscire la sera e tornare sempre più tardi, a lui e a lei diamo le stesse raccomandazioni? gli stessi orari per il rientro? E se alla figlia diciamo di stare attenta a non dare troppa confidenza a chi non conosce, e le raccomandiamo di vestirsi decentemente, diciamo a lui, con la stessa forza e con lo stesso convincimento, come deve rapportarsi con le ragazze? Gli insegniamo che le sue compagne non sono oggetti sessuali, ma persone, proprio come lui?
Domande di questo genere dobbiamo coltivare noi adulti. Giovani genitori con bambini piccoli e genitori di figli adolescenti. Abbiamo bisogno di guardare come, madre e padre, compagni di vita, ci relazioniamo tra noi. I figli guardano e apprendono. Al di là e al di sopra di quanto diciamo.
Stesse considerazioni per la scuola. Parliamo di educazione affettiva e sessuale. Non credo serva granché l’ora che molti vorrebbero dedicarle. Facciamolo pure. Ma insegnamento sono i modelli di comportamento che i ragazzi vedono tra gli insegnanti. E tra questi e gli alunni. Se un prof si permette sguardi o battutine su una collega o addirittura su una studentessa, cinquecento ore di educazione affettiva non basteranno per neutralizzare il messaggio maschilista che lui passa alla classe. Se non abbiamo il coraggio di guardare le radici del maschilismo-e-patriarcato che da secoli guida il nostro pensiero, hai voglia a ore di educazione a scuola.
Piuttosto che continuare a sbraitare dagli! dagli! dagli al… migrante! – l’untore dei nostri giorni – diamoci da fare per attivare un processo di ri-educazione. Per noi adulti. E per i nostri ragazzi.
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