La settimana scorsa c’eravamo lasciati dicendo che fondamento del cristianesimo è il fatto che in Gesù, quello vero non quello artificiale, Dio si rende presente in carne ed ossa. Nella pienezza dell’umanità. Secondo me è qui il nodo, quello che non sappiamo sciogliere.
Perché quando lo guardiamo, Uomo-e-Dio, in un unicum che rende impensabile una dimensione senza l’altra, rischiamo di perderci. Qualcosa di simile avviene, oggi, con la scienza che ci parla dell’universo come un’unicità dove energia e materia non sono che modalità diverse in cui la realtà si presenta. In un fluire continuo. Nel micro come nel macrocosmo. Ma a noi, collocati nell’intermedio tra micro e macro, condizionati dai nostri sensi, risulta difficile uscire da un’esperienza che continua a parlarci di dualità: energia da una parte, materia dall’altra.
Anche nel dare vita alle religioni, l’uomo ha sentito il bisogno di distinguere, per poi separare, il divino dall’umano. Pure il cristianesimo s’è incamminato su questa strada. Inconsapevole, però, che così perde sé stesso. La sua originalità. La sua unicità. Non sono, Dio nell’alto dei cieli e l’uomo sulla faccia della terra, ma Dio-e-Uomo sono nei cieli e sulla terra. Questo dice ciò che, come cristiani, chiamiamo incarnazione. Che noi collochiamo nello spazio e nel tempo. Ma che in sé parla di una realtà che è oltre lo spazio che misuriamo con il metro e il tempo che contiamo con il calendario. Gesù, di cui a Natale ricordiamo la nascita nel tempo (duemila anni fa) e nello spazio (in Palestina), è la sintesi, il nucleo della realtà. Dio-e-Uomo, volti diversi della Vita. Dell’Amore.
Ma questo ci disorienta. Distinguere e separare, da una parte sono un’esigenza del nostro pensiero che non riesce a cogliere la totalità, l’insieme, dall’altra ci difende, quasi a tutelarci da una com-unione così profonda tra umano e divino da indurci in una sorta di vertigine.
Nel tentativo di uscirne, due sono le strade che percorriamo.
Da una parte c’è chi vede in Gesù un grande maestro. E nei Vangeli testi di saggezza. Sullo stesso piano di altri scritti, religiosi o filosofici. Eclissando il divino. Dimensione troppo impegnativa per l’uomo che, affascinato dalla scienza e dalla tecnologia cui ha saputo e sa dare vita, si vede un quasi-dio. Dimenticando, tuttavia, la fragilità delle sue creature. Non solo perché basta un cavo che si rompe o una batteria che salta, e tutto si blocca; ma, peggio ancora, perché scienza e tecnologia arriviamo ad usarle per favorire la morte piuttosto che la Vita.
L’altra strada che abbiamo seguito è quella di noi cristiani. Che in Gesù vediamo il Figlio-di-Dio, Dio-con-noi. Qualcosa di male? No. Se non fosse che rischiamo di non accorgerci che entrambe le posizioni poggiano sullo stesso pensiero: Gesù o è l’uno, un saggio maestro del passato, o è l’altro, il Figlio di Dio e Dio lui stesso. I primi, non riconoscendogli la dimensione divina; noi, attivi in un processo di riduzione della dimensione umana. Piena e totale.
Non è difficile cogliere questo movimento. Si avvia e prende forma nel II secolo. Quando la comunità di Luca e quella di Matteo cercano di ricostruire (immaginare?) gli inizi della vita del Maestro. Nascono qui i due capitoli iniziali dei loro vangeli. Il rischio è che questi nuovi scritti, se li leggiamo come cronaca piuttosto che come parabola, inducono ad una riduzione, quasi negazione, dell’umanità di Gesù. Gli viene tolto un padre biologico; il parto, grande fatica per ogni donna e per ogni bambino che nasce, per Gesù e sua madre sembra non sia esistito; a dodici anni ne sa più di tutti i maestri messi insieme. Alla sua famiglia abbiamo tolto la normalità, fatta di amore accanto a fatiche, difficoltà, incomprensioni, vicinanze, distanze. Come ogni famiglia. Da adulto poi l’abbiamo reso una sorta di super-eroe con poteri speciali. La sua sofferenza di fronte a dolore e ingiustizie, l’intolleranza verso una religione fatta di esteriorità, sentimenti di dolcezza, rabbia, vicinanza, angoscia di fronte alla morte… aspetti di vera umanità che i Vangeli ci presentano. Ma spesso tutto questo è sminuito. Ignorato quasi.
Perché tanta paura, mi chiedo, di vedere in Gesù, nella sua famiglia, nella sua storia, la pienezza della dimensione umana. Figlio dell’uomo amava dire di sé stesso. Ri-conoscere lui significa ri-conoscere noi. E ritrovare la radice di un’umanità dalla quale guerre violenze egoismi soprusi ingiustizie ci stanno allontanando.
È una sfida per noi cristiani: riscoprire la profondità della parola incarnazione. Senza il timore, quando lo guardiamo, di vederlo uno di noi. Fratello e compagno di strada. Per cogliere, in lui, la pienezza dell’incontro divino-e-umano che integra l’una e l’altra dimensione. Nell’alto dei cieli come sulla faccia della terra. In un tempo-spazio che è il nostro. E di tutti i tempo-spazi della storia.
Buon Natale!