8 set 2024
Con sguardo vigile di fronte al fascino della tecnologia
Una medicina per la memoria?
Racconta Platone che un giorno il dio Theuth va da Thamus, re di Tebe, per mostrargli alcune arti da lui inventate che, diffuse tra gli egiziani, a suo dire avrebbero portato loro grandi vantaggi. A un certo punto gli presenta la scrittura. “Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare: è stata infatti trovata come medicina per la memoria e per la sapienza”. Risponde il re: “Ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di giudicare quale danno e quale vantaggio comportano per chi se ne servirà… [La scrittura] produrrà dimenticanza nelle anime di coloro che l’avranno imparata, perché non fa esercitare la memoria: infatti, facendo affidamento sulla scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non dall’interno, da sé stessi. Dunque, non hai inventato una medicina per la memoria, ma per richiamare alla memoria”.[1]
Mi chiedo cosa risponderebbe oggi Thamus a chi gli proponesse Google o la cosiddetta Intelligenza Artificiale, prontissimi a rispondere ad ogni richiesta d’informazioni o con la presunzione, addirittura, di sapersi sostituire alla mente umana. Ascoltiamo con attenzione la risposta del re: c’è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di giudicare quale danno e quale vantaggio comportano per chi se ne servirà. In assoluto geniale e positiva è l’invenzione del microchip o la costruzione di algoritmi che guidano i tanti motori di ricerca, dove basta chiedere e subito ti arriva un’infinità di risposte e d’informazioni che la nostra memoria mai potrà possedere. Ma quale danno e quale vantaggio per noi che ce ne serviamo è domanda da tenere aperta. E se appare condivisibile l’orgoglio dei theuth dei giorni nostri, fermandoci un momento magari riusciamo anche a porre l’attenzione sull’uso che ne facciamo di questi strumenti.
La memoria, come le altre capacità della mente, vive e cresce quando la facciamo lavorare, quando la teniamo attiva. La funzione cresce con l’esercizio, si dice. Più le chiedo di ricordare, più ricorda. Al punto che perfino quando gli anni o una qualche malattia iniziano ad aggredirla, gli specialisti ci dicono che tenerla in funzione è la terapia più efficace. Se alla prima dimenticanza prendo il telefonino e aspetto la sua risposta, è solo la ruggine che s’impossesserà dei miei neuroni. Nulla di male se dimentico che Gitega è la capitale del Burundi, ma se oggi non ricordo più neppure il numero di mio fratello e sì e no quello della moglie o del marito, non è certo un grande vantaggio dire il nome e lasciare che lo smartphone faccia il numero al mio posto. O viaggiare affidandomi al solo navigatore, trascurando ogni senso d’orientamento.
Problema ancora più serio per i nostri bambini e ragazzi. Eternamente appiccicati allo schermo del telefonino, pronti a cercare lì ogni informazione. Perfino per fare i compiti o addirittura per sapere quali sono i compiti da fare o gli argomenti da studiare. Complici in questo quegli insegnanti, di ogni grado, che non fanno usare più neppure il diario: sai, loro sono moderni, digitali… mica vecchi come te. Mi raccontava un’insegnante che nel dare una versione, a casa o perfino in classe, toglieva dall’originale, di Cesare o di Platone, una due righe. E quanti erano gli studenti che, copiando la traduzione dal telefonino, neppure si accorgevano del taglio fatto! Una domanda: chiediamo ancora d’imparare a memoria Leopardi o Montale, Saffo o Fedro? Medicina per la memoria è solo il dover ricordare.
E che dire della cosiddetta Intelligenza Artificiale (IA)? Intanto sarebbe importante darle il nome giusto: non intelligenza, ma semplice capacità di elaborare un’infinita quantità di dati in un brevissimo lasso di tempo. Capacità che il nostro cervello si sogna di possedere. Ma ciò che lei, l’IA, si sogna di possedere è… l’intelligenza! La capacità, cioè, di creare e di esserne consapevole. Nessuna consapevolezza possiede una macchina. Né mai potrà possederla. Sempre maggiore sarà la quantità di dati che saprà elaborare in un sempre più breve lasso di tempo. Ma il passaggio che homo sapiens nel suo processo evolutivo ha fatto fino a raggiungere la consapevolezza di sé, una macchina mai potrà farlo.
Attenzione, poi, a non dimenticare che quanto più potente è lo strumento che costruiamo, tanto più è fondamentale che siamo consapevoli del come e del per quali scopi lo utilizziamo. Abbiamo già fatto esperienza con un’altra grande risorsa di cui pure, da un secolo a questa parte, disponiamo. L’energia nucleare. Fonte di vita e di benessere, quando ben usata; ma anche potente strumento di morte e di distruzione.
Ha ragione re Thamus: sempre dobbiamo chiederci quale danno e quale vantaggio comportano per l’umanità le grandi scoperte e invenzioni della tecnologia e della scienza.
[1] Platone, Fedro
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