VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

30 mar 2025

Quando la dipendenza dalla rete diventa dramma

Quell’ultima chat

Sì, è all’ultima chat che andiamo, come alle ultime parole che ci siamo scambiati con la persona cara che ci ha lasciato. Quasi a poterla ritrovare, lì, ancora con noi. Incontrare la morte, quando questa entra in casa senza neppure bussare alla porta e aspettare il nostro avanti, è l’esperienza più drammatica che la vita ci propone. E a nessuno è dato il privilegio d’esserne esonerato. Se poi facciamo i conti con il tempo, con le età, allora la confusione cresce.

Misurare il dolore? Non funziona. Un compagno di vita che a quarant’anni ti muore in mezza giornata o una madre che ti lascia quando di anni ne hai appena dieci; una moglie con cui hai condiviso cinquant’anni di vita e insieme con te, adesso, stava raccogliendo, giorno dopo giorno, il piacere d’un tempo tutto vostro, capaci ancora di costruire progetti; un bambino che a sei anni è consumato dal cancro; una figlia che nel silenzio della sua incipiente adolescenza, senza nessun preavviso, ti lascia il suo corpo senza vita… Puoi misurare il dolore? Puoi misurare l’energia del buco nero in cui s’è trasformata la stella ch’è implosa? Questo potrai anche farlo, con la precisione che la scienza ci permetterà. Ma per il dolore dell’anima non c’è strumento capace. Né mai ci sarà. Perché l’anima appartiene a quella dimensione della vita in cui cielo e terra, energia e materia, onde e particelle amano giocare, al nostro sguardo, in una dinamica continua.

 

E quando la morte ti arriva dalla rete? Il web è strada che a lei non dispiace. Anzi, la si direbbe una delle preferite, oggi. Deve aver intuito che noi, ancora, non vi abbiamo collocato microspie o telecamere, né particolari sensori che ne segnalino l’arrivo. Andrea ha solo diciannove anni, ma lei l’ha già chiamato. E lui la segue. Dylan è poco più grande. A ventinove precipita dall’ottavo piano: c’è un selfie che la rete aspetta. Per raggiungere Alex, vent’anni, passa da TikTok. Questa rete per lei è un’autostrada, sembra, e non c’è autovelox che possa trattenerla. “Prendi una corda, fai un cappio e legala in alto” gli dice l’amico dall’altra parte della chat. Andrea fa il nodo e glielo mostra: “Così no, non ho il coraggio”. L’altro lo rassicura che l’ossicodone è un potente analgesico, non gli farà sentire né dolore né paura: “Ce la puoi fare. Va’. Ammàzzati. Fallo e sta’ zitto. Prendilo tutto, mandalo giù, beviti una bottiglia di vino e non senti niente. L’oxy dà piacere”. Silenzio. E il silenzio si fa lungo. “Non mi risponde più. Vuoi vedere che è morto?”. E qui muore anche la conversazione. Un ultimo messaggio c’era stato. Prima. Era sua sorella: “Dove sei? Perché non rispondi? Ti sto cercando”. Ma la risposta non arriva. E non arriverà.

Francesco d’Assisi la chiamava sorella morte. No, io ancora non ci riesco. S’è infiltrata su strade subdole. Su quelle della rete, dove sa che non è rintracciabile. Non ci sono forze dell’ordine. E quando pure dovessero arrivare, è sempre tardi. Lei la sua vittima se l’è già presa.

Brutte storie queste. Sì. Ma il peggio è che rischiano, ai nostri occhi, di diventare normali. Al punto da lasciarci lì, qualche commento, o tuttalpiù qualche giorno sui quotidiani o su spettacoli televisivi. Più tossici, quest’ultimi, dell’ossicodone e di tutte le altre pilloline, più o meno legali. Il web è un’area che noi adulti abbiamo bisogno di conoscere. Se non lo facciamo è come lasciare un figlio una figlia, a otto dieci dodici anni, soli, vagare, di notte, nelle strade più buie della città. Cose estreme, direte. Sì, cose estreme. Ma ci si arriva pian piano. La sottovalutazione che facciamo dei social e di tutto quanto è connesso ricade poi sui più deboli. Sui nostri ragazzi. Una recente ricerca dell’Università Milano Bicocca evidenzia come i minori di quattordici anni che frequentano i social hanno rendimenti scolastici inferiori rispetto ai coetanei che non ne fanno uso. Lingua e matematica le più sofferenti. I maschi ne sono vittime più delle femmine. Così i figli di genitori con un più basso livello culturale. Non in grado di utilizzare neppure quelle App che un minimo di controllo permettono di attivarlo. Ma professori o operai, avvocati o artigiani, da media inferiore o laureati, continuiamo a sottovalutare la dipendenza da cellulare che sta diventando sempre più endemica tra i ragazzi. E tra i bambini.

 

Maggio giugno sono i mesi delle Prime Comunioni o delle Cresime: che ci si creda o no, sembrano qualcosa che s’ha da fare, se no. Se no? Non si capisce che cosa. E qual è il regalo che va per la maggiore in queste circostanze? Che domanda… il telefonino! Che, a otto dieci dodici anni, sarà nelle sue mani, a tempo pieno, e in totale e assoluta assenza dei genitori. In attesa di piangere quando, a quindici diciassette o venti anni lo vedremo rinchiuso nella sua camera prigioniero d’uno schermo.

Andrea o Giulia o Dylan o Alex… Sì, possiamo fare che la loro morte non sia inutile.