Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.[1]
Mi chiedo se non sia questa la foto del nostro quotidiano. Del vostro. Del mio. E dire che di domande è pieno il mondo. Piena anche la nostra mente. Ma i giorni si susseguono, l’uno dopo l’altro, oggi come ieri e come domani. Non solo. L’agitazione segna il tempo, come un metronomo impazzito. Una volta partito non concede tregua. E va avanti. Se dài retta a lui, neppure il tempo per correggerti ti puoi prendere. Se vuoi studiare quel passaggio più impegnativo, ascoltare meglio quella combinazione di note, o dare respiro a quel silenzio che ti prepara a gustare il colore del suono successivo, lo devi fermare. Ti devi fermare.
C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare scrive Qohelet, un vecchio saggio, 2mila300 anni fa.[2] Tacere è il tempo per le domande. Ma è un tempo che non è in vendita. Neppure sponsorizzato, in verità. Avete mai visto, negl’innumerevoli spettacoli che ci offre la tv, qualcuno degli interlocutori tacere e ascoltare? Perfino la parola con cui chiamiamo questi dibattiti lo dice, talkshow, spettacolo di parole. Di chiacchiere.
Di aver passato tutto il giorno senza fare domande si rimprovera la poetessa polacca. Sono andata avanti come un automa, sembra dirsi. Quali domande? Quelle che ci portano a ricercare il senso. Delle nostre parole, del nostro agire. Tutte le parole sono logore, e l’uomo non può più usarle continua Qohelet, con uno sguardo sottile, da uomo d’esperienza. Sente, già ai suoi tempi, la crisi delle chiacchiere, delle spiegazioni che si accavallano le une sulle altre. Ma non è questo ciò che stiamo vivendo anche noi, oggi, dove le domande sembrano spente e le risposte ripetitive? Banali. Passiamo il giorno della nostra vita senza farci una domanda.
Nel parlarci di Abramo l’autore scrive che a un certo punto interviene Dio nella sua vita. Lo chiama e gli dà un ordine. Vai a te stesso, gli dice. E continua: lascia il tuo paese, la tua patria, la casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò.[3] Attenzione, non gli dice vattene, come tanti traduttori continuano a scrivere. No, Abramo non se ne deve andare. Deve andare, sì, ma verso se stesso. Alla ricerca di se stesso. Per realizzare il suo progetto di vita, quello con cui è venuto al mondo. Non è questo il compito che la vita dà a ciascuno di noi? Trovare il senso del proprio vivere. Ascoltare il progetto con cui la mia anima ha deciso d’entrare in questa fase della vita, direbbe Platone.
Deve muoversi verso il paese che io ti indicherò, sente Abramo dal suo Dio. Ma attenzione, quell’io che indica non è qualcuno fuori da me. Lo posso chiamare Dio o più semplicemente io. La differenza è nella scelta che ciascuno fa. E per tutti resta quella parte di lavoro indicato dalle parole che seguono: lascia il tuo paese, la tua patria, la casa di tuo padre. Non restare imprigionato, cioè, dalle usanze e dalle tradizioni. Dal fanno tutti così. E prova a non doverti ritrovare anche tu, a fine giornata, a rimproverarti del tempo vissuto senza un pensiero che andasse più in là dell’uscire di casa e del tornartene a casa.
Non è facile fermarsi. E, nel silenzio, aprire la cartina, guardare la strada. Il silenzio non ci è concesso, abbiamo bisogno di rubarlo. A noi stessi. Al frastuono. Della violenza. Delle guerre. Degli interessi che s’intrecciano. Al sovrapporsi dei suoni dei tanti pifferai pronti ad incantarci con le loro melodie. Senza dirci, però, che seguendoli faremo la fine dei topi di Hamelin: affogati nella corrente del fiume. Il fiume del così fan tutti. Sì, guardiamo la cartina, la mappa: il navigatore automatico non conosce la strada. La mia. La tua. Quella della nostra anima.
Scrive Kafka all’amico Oskar Pollak: Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio, perché dunque lo leggiamo? Un libro deve essere un'ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.[4]
Homo sapiens, abbiamo raggiunto la consapevolezza, la capacità di farci le domande e di vivere il tempo necessario perché le risposte spuntino e si sviluppino nel nostro cuore. Non c’è, né ci sarà mai, intelligenza artificiale o motore di ricerca, anche il più sofisticato, in grado di soddisfare questo bisogno. Rallegriamocene: mai la nostra anima si lascerà teleguidare. Lei non parla la lingua degli algoritmi.
Noi siamo molto di più, altro, della somma delle molecole del nostro corpo.
[1] W. Szymborska, Disattenzione
[2] Qohelet 3
[3] Genesi 12,1
[4] Kafka, 1903